La passione concreta di Alessandro Leogrande

Goffredo Fofi

Non è facile dire di Alessandro qualcosa che non sia stato già detto, si può solo insistere su alcune sue convinzioni, e anzitutto, in questa sede, sulla sua vocazione meridionalistica – che è stata solo uno degli aspetti della sua ricerca, della sua azione. Sì, perché da Salvemini maestro indiscusso e credo che molta parte dell’amicizia che Alessandro ha avuto nei miei confronti sia venuta dal mio ostinato elogio di Salvemini e dall’ostinato invito del molfettese alla concretezza, rivolto soprattutto agli intellettuali del suo Sud. E anche un po’ dal fatto che io Salvemini l’avessi comunque incrociato, e avessi frequentato molti suoi amici o allievi, da Rossi Doria a Levi a Mazzarone

E dal mio ostinato interesse per le cose del Sud, per le sue piaghe di un tempo e per quelle del mio tempo, per le sue risorse umane e naturali e per il pensiero dei suoi grande intellettuali eretici secondo la convinzione di Silone. Appunto per un pensiero meridiano che, quando Cassano lo teorizzò, ci affascinò molto e a cui dedicammo molta attenzione su una rivista con sede a Napoli ma che ambiva a uno sguardo meridionale e perfino mediterraneo. Si chiamava Dove sta Zazà e il titolo lo avevamo rubato a una celebre canzonetta del dopoguerra – il canto, tuttavia vitale, di un reduce in cerca del suo vecchio amore nella confusa Napoli della Liberazione – ma attribuendo a Zazà gli attributi dell’Utopia, della ricerca di un mondo migliore.

Non ricordo se Alessandro fece in tempo a collaborarvi, ché ebbe breve vita a causa di certi consueti narcisismi dei più consueti tra i collaboratori, tra gli intellettuali… ma collaborò senz’altro ad alcune piccole operazioni collettive, alcuni libri della casa editrice L’ancora del Mediterraneo di breve ma intensissima vita, aperta al mondo ma insieme decisamente meridionale, e retta da un ostinato lavoro e confronto di gruppo e proponente libri a più voci, ideati e affrontati anche con Alessandro, sulla condizione giovanile degli anni 1980/’90 o testimonianti la nascita di una generazione di scrittori del Sud che non ha avuto, purtroppo, gli esiti che speravamo. È a quel tempo che risale il primo libro di Alessandro, la sua prima inchiesta su Taranto.

Dalla chiusura di Zazà (che ha avuto un suo seguito quantomeno documentario in una trasmissione radiofonica ancora attiva, su quanto di nuovo è proposto dal Sud) nacque però La Terra vista dalla Luna.

Dal fallimento delle speranze di cui quest’ultima era portatrice – un dialogo attivo con una sinistra che andava invece sfaldandosi e corrompendosi senza rimedio – nacque Lo straniero, di cui Alessandro è stato l’anima più meridionalista ma anche e soprattutto la più politica, perché tra di noi era lui a portare alla politica quell’interesse che ad altri come me, forse perché di poco o di molto più vecchi, ormai difettava. Un interesse ovviamente attivo, e salveminianamente concreto, che riguardò le sorti dei movimenti dei sindacati dei partiti, e riguardò in particolare, a fianco e, se possiamo dire, di fronte all’Italia adriatica, i paesi dirimpettai e la loro rapidissima trasformazione. Prima di tutti l’Albania, che Alessandro aveva avuto modo di conoscere, con base da Taranto, grazie al suo ammirevole padre.

Ecco una virtù che è andata persa, nell’omologazione delle culture portate da Internet, quella della curiosità concreta per gli altri da noi e tuttavia, in un mondo ormai uno, così simili a noi, così vicini a noi. Con base da Taranto, e vi insisto, perché, fedele alla convinzione demartiniana che si può essere cittadini del mondo solo se hanno buone radici in un posto specifico, in un nostro “villaggio”, Alessandro non ha mai smesso, credo, neanche in un sol giorno della sua vita e forse neanche nei giorni affannosi di Genova, di essere e sentirsi tarantino, e pugliese. Radici forti, di cui sanno bene i suoi amici d’adolescenza e poi di lotta…

E dovrei dire del contributo fondamentale dato da Alessandro alla rivista di cui fu co-direttore, anche se, per una forma di rispetto nei miei confronti e per la mia storia, non volle mai esserlo ufficialmente. Eravamo in realtà tre a fare la rivista, nel corso di dieci densi anni di incontri e discorsi quotidiani, di scoperte e acquisizioni di idee e di amici quotidiane, ché con me e con Alessandro c’era una straordinaria, generosa segretaria di redazione che per Alessandro fu, credo, una sorta di sorella maggiore, di confidente anche nelle questioni più intime, Anna Branchi, scomparsa prima di Alessandro.

Chiuso Lo straniero, ché ho sempre pensato avesse ragione Edmund Wilson quando, nel saggio che si intitola Il Polonio dei letterati, sosteneva che gli anni buoni di una rivista sono pochi, non molti più di cinque: c’è l’avvio, ci sono gli anni in cui una rivista riesce a esprimere al meglio le tensioni e speranze del proprio tempo e c’è poi una inevitabile decadenza, nella difficoltà di capire e narrare il nuovo che immancabilmente avanza, di esserne davvero parte.

Altre battaglie ormai ci interessavano, vicine e bensì, per Alessandro, mosse da una passione civile quale mi è capitato di vedere rarissimamente anche negli anni d’oro che vanno sotto il nome (prima e dopo) di ’68. Una passione bensì lucidamente razionale, mai mistificata dall’ideologia. Una passione salveminiana, una passione concreta.

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