Un altro Risorgimento è possibile. L’ultimo Alessandro Leogrande

Lea Durante

A pochi mesi dalla sua morte, Alessandro Leogrande volle pubblicare un piccolo libro per riportare il nome di Carlo Pisacane nel dibattito pubblico, a 160 anni dall’impresa di Sapri (L’altro Risorgimento, Edizioni dell’asino 2017).  Era la tarda primavera del 2017, e Alessandro osservava il montante fenomeno del neoborbonismo con lo sguardo di chi da lungo tempo stava tenendo d’occhio certe spinte telluriche antiunitarie, identitarie, regressive che il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, nel 2011, con le sue celebrazioni dai tratti sabaudocentrici aveva fatto deflagrare.

Il libro raccoglieva due suoi scritti, due scritti di Pisacane, il famoso saggio di Nello Rosselli su Pisacane e la poesia La spigolatrice di Sapri, di Luigi Mercantini, tornata poche settimane fa agli onori della cronaca in occasione dell’apposizione di una statua commemorativa nella città cilentana teatro dell’impresa che ha fatto molto discutere.

 Seppure meno noto di altri libri, dei quali è più immediata la funzionalità civile, o la profondità dell’impegno analitico del presente, questo volumetto si distingue per un pronunciato spirito militante: in quel momento, infatti, Leogrande comprende l’urgenza di intervenire con argomenti storicamente fondati e con proposte positive in un dibattito che si sta polarizzando, e che sta chiudendo il Risorgimento fra due tifoserie territoriali opposte, entrambe dominate da un’accensione populista improduttiva e violenta: il leghismo separatista veneto, di cui già in tanti precoci articoli aveva denunciato i pericoli, e il sudismo vittimista à la Pino Aprile, che Leogrande aveva respinto con forza fin da una recensione del 2010.

Prove tecniche di cancel culture e vecchi identitarismi mai sopiti si intrecciavano alla sua vista ai più cogenti temi del renzismo dominante sul federalismo differenziato e alla oggettiva condizione di sofferenza economica, demografica, sociale che appariva e appare nel Sud ormai endemica, quasi sottratta alla storia. E proprio contro questa sottrazione del Sud alla storia che Leogrande combatte, nello sforzo di riportare gli accadimenti dentro una dialettica, dentro una processualità tutta fondata nelle scelte, nelle azioni umane, nelle omissioni, nella politica. Questo sentire storico, questo pensare storico tiene legati in Leogrande in un unico discorso la ricerca sul passato del Mezzogiorno, nel quadro italiano e internazionale, e l’analisi dei fatti presenti, in una combinazione originale di sguardo critico al passato otto-novecentesco e di visione del futuro che ha fatto di Alessandro Leogrande un meridionalista di tipo nuovo.

Quel libro smilzo, asciutto, sintetico arrivò come un messaggio in bottiglia, la linea Pisacane-Rosselli è tante cose insieme: una proposta di lettura di testi difficili da reperire per un pubblico non specialista, la conferma che in un altro momento durissimo per la nazione, il fascismo, caratterizzato anch’esso da un uso ideologico molto spinto del Risorgimento, qualcuno aveva pensato di ricostruire a ritroso la strada buona del pensiero democratico  italiano e dei suoi pochi protagonisti disposti a mettere in gioco la propria vita per la causa unitaria nazionale, costruendo una linea a cui per Leogrande era necessario aggiungere nuovi elementi, nuove idee.

Se per Rosselli, però, il richiamo a Pisacane era legato alla ricerca di una terza via socialista- liberale nel cuore del novecento, per Leogrande la terza via rappresentata dall’eroe napoletano è quella di un altro Risorgimento, lontano tanto dalla lettura controstorica dei neoborbonici, basata sulla nostalgia di una immaginaria età dell’oro in cui briganti e soldati del re avrebbero tentato di salvare il Sud dall’invasione del Nord, quanto dalla lettura sabaudista che vede senza chiaroscuri il processo unitario come una realizzazione tutta positiva della nazione in senso progressista.

Pisacane è il simbolo di un disperato tentativo di saldatura degli obiettivi politici dell’unificazione con gli obiettivi sociali di miglioramento delle condizioni materiali di vita delle popolazioni meridionali. È l’incontro del Risorgimento col socialismo, è la voce nel deserto che chiede al popolo utopisticamente, ma con una fortissima carica simbolica ed etica, di rendersi protagonista della sua rivoluzione sociale che solo in quanto tale può farsi politica.

Leogrande, insomma, in quel torno di mesi che fa quasi impressione poter tentare di storicizzare a distanza di così pochi anni (ma il susseguirsi dei fatti è stato vorticoso), provò a mettere in gioco le sue radici, a raccogliere materiali, a dare profondità e consistenza a una visione del mondo che per tenersi doveva agglutinarsi intorno a un nome, a un’avventura concreta, trovare la sua coerenza, depositarsi in un attraversamento di più lungo periodo della vicenda del Meridione, così come i suoi riconosciuti maestri, da Salvemini a Di Vittorio, da Levi a Fiore,  avevano fatto prima di lui.

Il populismo lo offendeva, ma cercava di affrontarlo sempre con la ragione dialogica che lo caratterizzava: per un paradosso che lo metteva in imbarazzo, era in quegli ultimi anni della sua vita un consulente di punta per le politiche culturali della Regione Puglia proprio mentre il Movimento 5 Stelle, sotto la guida di Pino Aprile, proponeva iniziative filo borboniche e antinazionali al Consiglio regionale, diffondendo idee reazionarie e soprattutto un’idea di Sud che erano l’opposto di ciò per cui si batteva lui. Ma era, ed è, proprio nella persistenza di queste forme di identitarismo vittimista che si manifesta la subalternità culturale meridionale. Anche per questo il librino risorgimentale di quei giorni assume il carattere di un involontario testamento, da tenere in gran conto.

L’attività di Alessandro Leogrande su questi temi era stata consegnata fino a quel momento ad articoli sparsi, recensioni, interventi, per lo più usciti sul Corriere del Mezzogiorno, ripresi a volte da riviste on line di analisi e critica sociale, riproposti nelle mille occasioni in cui Leogrande si prestava generosamente ad intervenire, in una disseminazione di momenti e incontri e pagine scritte davvero inconsueta. Manca quella operosità capillare, alta e popolare insieme che faceva di Alessandro un intellettuale gramsciano. Credo che quegli scritti vadano raccolti, letti uno dietro l’altro, dai primi del 2010 fino al Pisacane del 2017: vi si troverà un segno riconoscibile, continuo, sicuro; una riflessione che sotterraneamente, sottilmente, ha rappresentato la barra dritta per tutto ciò che Alessandro ha fatto e detto sugli ultimi, sugli esuli, sugli sfruttati del tempo presente.

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