La vittoria di Pirro di Boris Johnson

Thierry Vissol

Il 24 dicembre alle 16:30, il primo ministro inglese Boris Johnson, ergendosi a novello Churchill, annunciava il successo finale della sua sfida: ottenere un accordo di libero scambio con l’Ue entro la fine del 2020, «take back control» riprendere il controllo totale della sovranita britannica. Un discorso che s’inserisce nella tradizione politico culturale dei suoi predecessori da quasi un secolo.

«Abbiamo ripreso il controllo delle leggi e del nostro destino. Abbiamo ripreso il controllo di ogni minimo dettaglio dei nostri regolamenti in un modo che è completo e senza ostacoli. Dal 1° gennaio siamo fuori dell’unione doganale, fuori del mercato unico. Le leggi britanniche saranno emanate esclusivamente dal Parlamento britannico, interpretate dai giudici britannici che siedono nei tribunali del Regno Unito, e la giurisdizione della Corte di giustizia europea giungerà al termine […] Questo significa che avremo una indipendenza politica ed economica totale il 1° gennaio 2021».

Poi, rivolgendosi ai paesi dell’Ue aggiunge, «Saremo vostri amici, vostri alleati, vostri sostenitori e, anzi – non dimentichiamolo mai – il vostro mercato numero uno. Perché anche se abbiamo lasciato l’Ue questo Paese rimarrà culturalmente, emotivamente, storicamente, strategicamente e geologicamente legato all’Europa anche attraverso i quattro milioni di cittadini dell’UE che hanno chiesto di stabilirsi nel Regno Unito negli ultimi quattro anni e che danno un enorme contributo al nostro Paese e alle nostre vite».

Di fatto, paradossalmente, dopo la conquista delle isole britanniche da parte del normanno Guglielmo il Conquistatore, i britannici hanno sempre cercato di tenersi alla larga dal continente. Basta ricordare l’abbandono dei principî del diritto romano e l’affermazione di una giustizia basata sulla Common law durante il regno di Enrico II Plantageneti (1154-1189) e soprattutto l’Atto di Supremazia del 1534. Con quest’ultimo, alla base degli argomenti dei brexiter, Enrico VIII non solo abbandona la religione cattolica romana, quindi rispinge qualsiasi tipo di intervento dei Papi, ma attribuisce la sovranità politica al Parlamento e ai sovrani, rifiutando qualunque ingerenza straniera negli affari interni.

Dopo i due secoli di dominazione del mondo di Rule Britania e di divide to rule i britannici saranno costretti, dalla fine dell’Ottocento, per far fronte alla potenza economica e politica tedesca e limitare quella francese, ad avvicinarsi ai francesi e ai russi con la Triplice Intesa. Tuttavia, questo avvicinamento non cambierà nulla nell’atteggiamento dei britannici vis-à-vis di qualsiasi idea di unificazione politica con il continente europeo.

Nel 1925, impediscono la realizzazione del Patto di Locarno – dal quale sono firmatari -, il primo progetto di unificazione dell’Europa voluto dal francese Aristide Briand e dal tedesco Gustav Stresemann. Churchill commentò l’accordo in questo modo: «La concezione degli Stati Uniti dell’Europa è giusta. Ogni passo in questa direzione che diminuisce l’odio obsoleto e fa sparire le oppressioni, rende più facile gli scambi reciproci di servizi, che incoraggia le nazioni ad abbandonare le loro precauzioni, è bene di per sé […] Noi abbiamo il nostro sogno e il nostro compito. Noi siamo con l’Europa ma non dell’Europa («we are with Europe, but not of it»).

Riprenderà gli stessi argomenti nel suo famoso discorso europeista del 1946 a Zurigo: «Credo che questa più ampia sintesi di nazioni può sopravvivere solo se si fonda su vasti raggruppamenti naturali […] Noi britannici, abbiamo il nostro Commonwealth […] In questo compito urgente la Francia e la Germania devono prendere insieme la guida. La Gran Bretagna, il Commonwealth Britannico di Nazioni, la potente America, e, spero, la Russia sovietica perché allora tutto andrebbe bene – devono essere amici e i sostenitori della nuova Europa e devono difendere il suo diritto alla vita e la sua prosperità».

Il peso della tradizione individualista, nazionalista e liberale
La linea generale della politica europea britannica, quella dei conservatori come quella dei laboristi (con l’eccezione di Tony Blair) sarà da allora sempre la stessa: rifiuto di qualsiasi tipo di unione politica; rifiuto di solidarietà europea illustrato con il famoso «I want my money back» di Margaret Thatcher; insistenza sulla creazione di una Europa di libero scambio per merci e servizi soprattutto finanziari.

Gli esempi non mancano.

Nel 1948, Churchill presidente d’onore del Congresso degli europeisti dell’Aia organizza la scissione del movimento federalista tra i sostenitori di un’unione puramente economica – gli unionisti – e quelli favorevoli a un’unione politica – i federalisti.

Nel 1949 e nel 50, nonostante le pressioni americani, i britannici impediscono all’OECE di diventare una unione politica, poi sabotano il progetto federalista del Consiglio d’Europa portato da Altiero Spinelli.  Non accettano di partecipare alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio, considerata come anteprima di un’unione politica. Il loro rifiuto della CED (Comunità europea della difesa) considerato come una «scavo archeologico» da Rab Butler, allora Cancelliere dello Scacchiere, sarà una delle ragioni che porterà il parlamento francese a non ratificarne il trattato (1954). Analogamente non vogliono partecipare alla CEE (Comunità economica europea) e creano parallelamente nel 1960 una zona di libero scambio concorrente con i paesi nordici: l’AELS (Associazione europea di libero scambio o EFTA in inglese).

È vero che Harold MacMillan fu il primo capo di governo, conservatore, a voler far entrare nella CEE anche il Regno Unito. Tuttavia, durante il suo discorso al Parlamento del 2 agosto 1961, insistette sul fatto che l’unione europea in costruzione era solo una comunità economica che non aveva e non avrebbe mai nessuna competenza in materia di difesa o di politica estera. Concluse il suo discorso: «Credo che il nostro posto si trovi nel movimento di avanguardia verso un’unità del mondo libero più stretta, e che noi possiamo dirigerlo meglio dall’interno che dall’esterno». Harold Wilson, Primo Ministro laburista, userà lo stesso argomento al momento del secondo tentativo degli inglesi di aggregarsi alla Comunità economica europea. La stessa retorica che userà anche il laburista Gordon Brown durante la sua campagna a favore del remain durante la campagna del referendum sulla Brexit nel 2016.

Senza più Charles de Gaulle al potere, il quale avevo posto il suo veto due volte, Edward Heath, Primo Ministro conservatore, finalmente riuscì, nel 1972, a negoziare la partecipazione delle isole britanniche alla Comunità europea. Dopo aver firmato il trattato di adesione, il 2 gennaio 1972, in occasione di un breve discorso a Bruxelles, tesserà gli elogi dell’eredità comune europea, come lo faranno dopo di lui Margareth Thatcher, Theresa May e Boris Johnson nel suo discorso già citato. Tuttavia, dopo aver riconosciuto l’importanza di questa eredità e reciproci interessi di un comune destino europeo, insistette sul valore positivo dell’identità nazionale. Si felicita con i padri fondatori per la loro «originalità» nell’aver creato delle istituzioni collettive, ma avverte, «È troppo presto per dire fino a dove queste istituzioni risponderanno ai bisogni di una comunità allargata».

Quando i deputati conservatori entrarono nel Parlamento europeo, decisero di unirsi al gruppo del Partito popolare europeo (PPE). Ciononostante, richiesero e ottennero un «opting-out» alla clausola dello statuto interiore del partito, obbligando i suoi membri a promuovere una Europa Federale.

Ritornando all’inizio degli anni Settanta, il partito laburista allora nell’opposizione, ispirato da Tony Benn e da Michael Foot, promette nel suo manifesto elettorale di uscire dalla CEE. Le elezioni del 1974 portano di nuovo al potere Harold Wilson, che però era favorevole alla partecipazione britannica alla comunità. Per tenere fede alla promessa elettorale del partito, decise allora di promuovere un referendum sul tema, che si tenne nel 1975. Come per il referendum del 2016, il gabinetto finì per scindersi: otto dei membri fecero campagna per la Brexit. In compenso, Margareth Thatcher, allora nell’opposizione, non solo fece campagna per il «remain» ma accusò il governo di essere incapace di prendere una decisione e di «passare la patata bollente al popolo» attraverso il ricorso al referendum. Una critica dalla quale, purtroppo, David Cameron non si è ricordato. Nel 2016, Boris Johnson ebbe un ruolo simile a quello del provocatore e deputato conservatore Enoch Powell durante la campagna del 1975, un politico reso celebre per le sue posizioni a favore del liberalismo, dell’identità nazionale e del pericolo dell’immigrazione. Malgrado ciò, il remain vincerà con una maggioranza del 67%.

Sarà la Thatcher a formulare con grande precisione, nel suo famoso discorso di Bruges del 1988, argomenti che rimangono quelli dei attuali brexiter: la CEE (Unione adesso) non è un fine in se; la pace non deriva dell’Unione ma della Nato; le frontiere nazionali devono essere controllate dai paesi e non dall’Ue; la democrazia britannica è eccezionale, la sola ad avere rifiutato il fascismo e lottato per la pace del continente e contro l’egemonia di un paese sugli altri; il Regno-Unito ha una dimensione internazionale e il suo futuro non è solo in Europa; il dominio burocratico di Bruxelles è inaccettabile.

«Il mio primo principio guida è questo: la cooperazione attiva e volontaria tra Stati sovrani indipendenti è il modo migliore per costruire una Comunità europea di successo. Cercare di sopprimere le nazionalità e concentrare il potere al centro conglomerato europeo sarebbe altamente dannoso e comprometterebbe gli obiettivi che cerchiamo di raggiungere […] Non abbiamo ristretto con successo le frontiere dello Stato in Gran Bretagna solo per vederle reimposte a livello europeo con un super-Stato europeo che esercita un nuovo dominio da Bruxelles». In altre parole: «take back control».

È questa visione a spingere i britannici a provare a realizzare il sogno di MacMillan cioè di modellare l’Unione dall’interno, di fatto: rifiutano di partecipare allo SME (Sistema monetario europeo -1979) e all’accordo di Schengen; lottano contro le misure a favore di un’Europa sociale; combattono l’idea di Unione monetaria che spinge pericolosamente verso un unione fiscale e quindi politica, ma ottengono la liberalizzazione dei movimenti di capitali e dei servizi finanziari (responsabile in gran parte della crisi finanziaria del 2008); prendono il controllo della riforma della Commissione europea, affidata ingenuamente (?) dal presidente Romano Prodi al Commissario britannico Neil Kinnock, per svuotarne i poteri e indebolire il metodo comunitario al profitto di un approccio intergovernativo; promuovono l’adesione dei paesi del l’ex-blocco comunista, sperando in questo modo diluire le velleità dei francesi (e in minor modo dei tedeschi) di promuovere un Europa politica. In fine, dopo il fallimento del progetto di Costituzione europea, approfittano della revisione dei trattati per introdurre nel Trattato di Lisbona l’articolo 50 del TUE (trattato sull’Unione europea) che permette il recesso di un paese dell’Ue. Il cerchio era quasi chiuso.

E così che gli argomenti e obbiettivi di Churchill a Thatcher, ripresi da David Cameron e da Theresa May saranno portati a buon fine da Boris Johnson. Quindi, l’accordo del 24 dicembre 2020, liberando il Regno Unito di ogni vincolo legislativo europeo, di ogni interferenza della Corte di giustizia, garantendo la libera circolazione dei beni, e in gran parte dei servizi e del capitale (ma non delle persone), senza dazi né quota, costituisce, apparentemente, una vittoria di questa linea nazionalista secolare di una gran parte della classe politica britannica. Tuttavia, questa vittoria rischia di essere solo una vittoria alla Pirro.

Una vittoria di Pirro?
Difficile pensare che un accordo di 1.246 pagine (più di 2.000 con gli annessi) potesse essere semplice. I britannici rifiutando tutte le disposizioni del mercato interno che garantivano norme e disposizioni comuni, era necessario prevedere sistemi di controllo per evitare comportamenti di free-rider e legislazioni suscettibile di creare delle distorsioni di concorrenza. Le centinaia di migliaia di certificazione di esportazione, i controlli doganali e di provenienza (per evitare l’esportazione verso l’Ue di prodotti in provenienza di paesi terzi – solo i prodotti made in UK beneficiano della libera circolazione), i certificati di sicurezza e le ispezioni alimentari, i controlli fitosanitari, creano una valanga di ostacoli agli scambi.

Per esempio, nel campo aerospaziale dove esistono importanti scambi di componenti e tecnologie con l’UK (per i programmi in corso come Eurofighter e Meteor, Leonardo o anche Airbus) non potranno più essere utilizzate le licenze europee generale e globale, gli spostamenti dei tecnici saranno più difficili e la regolamentazione dei brevetti non risponderà più alla stessa normativa. Nella maggior parte dei settori di produzione (particolarmente nell’industria automobilistica) e di distribuzione (supermercati) esistono delle catene di valori complesse implicando movimenti di componenti o di merce secondo il sistema del just in time in cui i pezzi o le merci arrivano al costruttore o al distributore uno o due giorni prima del loro utilizzo o della loro vendita. Quindi gli operatori dovranno investire per creare magazzini e fare scorte.

I meccanismi di controllo dei principi di non-regressione e di equivalenza conducono alla creazione di decine di autorità sia nel UK sia nell’Ue nei vari settori per sorvegliarne la realtà, ma anche di nuove infrastrutture comuni di collegamento e di coordinazione: un nuovo Partnership Council che fa capo a 19 commissioni specializzate e 4 gruppi di lavoro.

La violazione degli standard comuni o la divergenza nei principi accordati, se queste hanno un impatto negativo sull’altra parte apriranno contenziosi. Essi, secondo la clausola di riequilibrio, dovranno essere risolti tramite un nuovo meccanismo di risoluzione indipendente appena dell’introduzione di dazi. Un meccanismo di risoluzione non ancora creato ma che sarà molto più complicato dell’autorità della Corte di giustizia. La complessità dell’analisi delle divergenze potenziali e del loro impatto, come quella della risoluzione dei conflitti promettono difficili negoziazioni e una minaccia permanente di reintroduzione di dazi. Tutte disposizioni che non permettono al governo britannico di intervenire a proprio piacimento su questioni come il cambiamento climatico, l’immigrazione, l’innovazione, le condizioni di lavoro, ecc.

Infine, l’accordo non risolve il problema dei servizi finanziari, quindi del ruolo della City nello spazio europeo. Uscendo il Regno Unito dal mercato interno gli operatori della City perdono il passaporto europeo permettendo il loro libero accesso allo spazio europeo. Nuovi accordi dovranno essere negoziati in questo campo.

Sarebbe troppo lungo entrare nei dettagli dei vari ostacoli agli scambi di beni e servizi creati da questo deal ma, come lo scrive The New York Times, il risultato dell’accordo è che l’Unione Europea mantiene tutti i suoi attuali vantaggi nel commercio, in particolare di merci, e il Regno Unito perde tutti i suoi attuali vantaggi nel commercio dei servizi. Quindi, questo negoziato commerciale dimostra quello che succede con la maggior parte degli accordi commerciali: la parte più grande (l’Ue) ottiene ciò che vuole e la parte più piccola (il UK) si aggiusta. Ed è proprio quello che rischia il Regno Unito nei suoi futuri accordi con gli USA, la Cina o anche la Russia.

Per il momento, i britannici hanno firmato degli accordi di mutuo riconoscimento con gli Stati Uniti, la Nuova Zelanda e l’Australia, tuttavia, non solo riguardano solo quattro o cinque tipi di beni, tra cui le apparecchiature per le telecomunicazioni e i prodotti farmaceutici ma replicano in termini generali l’accordo di mutuo riconoscimento dall’Ue e dagli Stati Uniti. Nello stesso modo, l’accordo di libero scambio con il Giappone, siglato fine ottobre 2020 con grande clamore, riproduce le condizioni alle quali il Regno Unito potrebbe commerciare con il Giappone essendo nell’Ue.

L’ultimo, ma non il minore, problema creato da questo accordo è la coesione del Regno Unito. L’Irlanda del Nord e Gibilterra rimangono nel mercato unico e nello spazio Schengen nel caso di Gibilterra, per evitare il ritorno a confini fisici con paesi dell’Ue, aprendo la porta a una possibile unificazione dell’Irlanda e alla sovranità della Spagna, rivendicata da anni, sulla Rocca. Le elezioni di maggio in Scozia, quando gli scozzesi avevano votato al 62% a favore del remain dovrebbero, secondo i sondaggi, rinnovare la maggioranza assoluta dello Scottish National Party. Nicola Sturgeon, suo leader e primo ministro scozzese, ha già annunciato volere un referendum per l’indipendenza e il ritorno della Scozia nell’Ue. Un tale referendum necessita l’accordo di Westminster, accordo che Boris Johnson dice non voler accettare, quando La Sturgeon, dal lato suo, ha annunciato che esplorerà tutte le vie legali per bypassare il veto di Johnson.

L’accordo non libera il Regno Unito dell’Ue, né l’Ue dal Regno Unito, al contrario si potrebbe affermare. Le clausole di revisione dell’accordo, il suo monitoraggio, la necessità di firmare altri accordi come nel settore finanziario, la partecipazione mantenuta dell’UK a vari programmi europei come Horizon Europe (il quale include l’European Defence Fund) richiederanno ancora decenni di anni di negoziazioni tra Londra e Bruxelles. E, a meno che l’UK decida di utilizzare le clausole di recesso incluse nell’accordo – che prevedono la possibilità per entrambe parte di metterci fine a qualsiasi momento, via una notificazione tramite i canali diplomatici – le relazioni anglo-europee rischiano di diventare una Brexeternity secondo l’espressione di Denis Macshane già ministro di Tony Blair e adesso cittadino irlandese per poter mantenere la sua identità europea.


Il disegno che accompagna l’articolo è di Nikola Listes (Croazia). Vignettista multi-premiato a livello internazionale. Ha vinto il primo premio del concorso LIBEX-2018. Pubblica le sue vignette in numerosi giornali e riviste internazionali tra i quali: Playboy, West Australian, Heidemheimer Neue Press, Die Bricke.

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