9 maggio, il futuro dell’Europa tra luci ed ombre

Antonia Carparelli

«La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano […] Il contributo che un’Europa organizzata e vitale può apportare alla civiltà è indispensabile per il mantenimento di relazioni pacifiche […] L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto […] Questa proposta, mettendo in comune le produzioni di base e istituendo una nuova Alta Autorità […] costituirà il primo nucleo concreto di una Federazione europea indispensabile al mantenimento della pace».

Questi stralci della dichiarazione di Schuman del 9 maggio 1950, quando ancora l’Europa faceva i conti con le ferite profonde lasciate dalla guerra, mettono in luce l’attualità di una visione che resta ancora da realizzare e riassumono gli elementi fondanti della costruzione europea: l’impegno a non dare per scontata la pace, ma a mettere in atto, per salvaguardarla, «sforzi creativi e proporzionali ai pericoli che la minacciano»;  l’idea di una costruzione graduale, basata su realizzazioni concrete che creino una «solidarietà di fatto»; l’avvio di un percorso finalizzato alla costruzione di una «Federazione europea indispensabile al mantenimento della pace».

Per queste ragioni, da poco meno di quarant’anni, con una decisione del vertice europeo che si tenne a Milano nel 1985, il 9 maggio è diventato la giornata dell’Europa. Nell’afflato che riconosceva l’importanza dei simboli per il divenire della costruzione europea, quello stesso vertice decise che la bandiera dell’Europa sarebbe stata la bandiera che conosciamo, dodici stelle su fondo blu, e che l’inno dell’Europa sarebbe stato il Preludio all’Ode alla Gioia della Nona Sinfonia di Beethoven.

Per le istituzioni europee il 9 maggio, tuttavia, non è soltanto una giornata di simboli e di celebrazioni, ma anche un’occasione di bilanci e di rinnovati impegni. Tale è stato, in particolare, il 9 maggio dello scorso anno, che ha segnato l’atto conclusivo della Conferenza sul futuro dell’Europa, un grande esercizio di democrazia partecipativa che ha impegnato per oltre un anno le istituzioni dell’Unione europea.

I lavori della Conferenza avevano prodotto 49 Raccomandazioni rivolte alle istituzioni, strutturate in nove capitoli e oltre 300 azioni che coprono tutto l’arco delle politiche europee (dal cambiamento climatico, alla salute, all’economia, alla dimensione internazionale, alla democrazia, alla transizione digitale, alla migrazione, all’educazione e le politiche giovanili). Nella cerimonia conclusiva, la Commissione, il Parlamento e la presidenza francese riaffermavano il loro impegno a dare un seguito adeguato ai lavori della Conferenza, e a rendere permanente la pratica del coinvolgimento dei cittadini nei processi decisionali dell’UE. Agli impegni hanno fatto seguito alcune lodevoli iniziative. Il Consiglio ha prodotto tavole sinottiche che affiancano alle proposte della Conferenza le azioni intraprese dalle istituzioni. L’ultimo aggiornamento è stato pubblicato il 22 novembre scorso. In un comunicato stampa rilasciato il 1° dicembre la Commissione ha precisato le modalità secondo cui intende dar seguito alle raccomandazioni, soprattutto attraverso il suo programma di lavoro. Il 2 dicembre il Parlamento, ha organizzato, insieme al Consiglio e alla Commissione, un grande incontro nel formato della Conferenza (con la partecipazione di 500 cittadini) per valutare l’adeguatezza della risposta istituzionale. 

Molte delle raccomandazioni prodotte dalla conferenza hanno a che fare con il rafforzamento della democrazia europea. Il preambolo alla raccomandazione 36 recita «Accrescere la partecipazione dei cittadini e il coinvolgimento dei giovani nelle procedure democratiche europee al fine di sviluppare un esperienza civica piena degli europei, assicurare che la voce dei cittadini sia ascoltata anche oltre le elezioni, e che la partecipazione sia effettiva». Una delle modalità di risposta delle istituzioni alla Conferenza riguarda proprio l’estensione delle pratiche di democrazia partecipativa inaugurate con la Conferenza. La Commissione ha organizzato il 16 dicembre il primo panel di cittadini sul tema della gestione dei rifiuti.

Ma il dibattito sulla democrazia europea avviato dalla Conferenza sul Futuro dell’Europa non si esaurisce certo nell’esperienza dei panel dei cittadini. Il tema della democrazia europea resta quanto mai all’ordine del giorno e sarà oggetto nelle prossime settimane di ulteriori iniziative del Parlamento europeo, anche in vista delle elezioni europee che si terranno l’anno prossimo. Il Parlamento ha chiesto con forza di avviare un processo di riforma dei trattati, e c’è una diffusa consapevolezza che per far fronte alle nuove sfide occorre riformare il quadro istituzionale e i meccanismi decisionali dell’UE. 

Il Trattato di Lisbona, firmato nel 2007 ed entrato in vigore nel 2009, ha appena quindici anni, ma i cambiamenti che sono intervenuti nel frattempo hanno messo drammaticamente in luce i limiti degli strumenti e le fragilità degli assetti istituzionali esistenti: la crisi finanziaria, la pandemia, le crisi migratorie, la crisi energetica, la guerra ucraina e, più in generale, la crisi della globalizzazione e l’alterazione degli equilibri geopolitici.

Questi temi, ed altri di vitale importanza, l’accelerazione del cambiamento climatico la transizione digitale, le diseguaglianze e il futuro del lavoro, sono stati discussi nel corso dell’iniziativa State of the Union che l’Istituto Universitario Europeo di Firenze tiene da alcuni anni in corrispondenza del 9 maggio, e che affianca i migliori esperti di politiche europee ai protagonisti istituzionali. I dibattiti, tutti accessibili sul sito dell’Istituto, danno conto della vitalità e della capacità trasformativa dell’Unione, ma anche dei rischi di arretramento e degli ostacoli che ancora si frappongono all’affermarsi di politiche veramente comuni in ambiti cruciali, quali ad esempio la politica di difesa e la politica fiscale.

E luci ed ombre emergono anche dalle opinioni dei cittadini, regolarmente raccolte e pubblicate nelle inchieste di Eurobarometro.

Cominciamo con le luci.

La fiducia dei cittadini nell’Unione europea, che era crollata ai minimi storici negli anni della crisi dell’eurozona, 31% degli intervistati, è nettamente risalita fino a toccare il 49% nel 2022.  Una tendenza analoga caratterizza la percezione che i cittadini hanno dell’Europa, con la percentuale di coloro che hanno un’immagine positiva passata dal 30% nel 2012-13 al 47% nel 2022. Un indubbio segnale che, a differenza di quanto era accaduto durante la grande recessione, i cittadini hanno apprezzato la risposta europea alla crisi pandemica.  Inoltre, una netta maggioranza della popolazione europea si dice favorevole alle misure adottate dall’UE in risposta alla crisi russo-ucraina, anche se con dei distinguo: oltre il 90% è a favore degli aiuti umanitari e dell’accoglienza dei profughi; per circa tre quarti è a favore delle sanzioni contro la Russia; per circa due terzi è a favore dell’invio di armi all’Ucraina. Un dato per molti versi confortante emerge dal giudizio dei cittadini sul futuro dell’Unione: il 62% dei cittadini si dichiara infatti ottimista, a fronte del 33% di pessimisti.

Tuttavia, la media non è un buon indicatore negli affari europei, perché contano molto le dinamiche dei singoli paesi. E dai dati disaggregati emergono appunto le ombre, a cui le istituzioni e gli attori politici europei dovrebbero prestare la massima attenzione.

Destano particolare preoccupazione i dati di alcuni paesi, tra cui in primo luogo quelli della Francia, ma anche della Grecia, dove è ancora molto pronunciata la sfiducia nelle istituzioni europee (oltre che in quelle nazionali) e dove prevale il pessimismo sul futuro dell’Europa. Né possono essere sottovalutati i segnali di malessere presenti un po’ in tutti i paesi, espressi da minoranze spesso più attive e visibili delle maggioranze consenzienti, troppo spesso pronte ad abbracciare istanze nazionaliste e sovraniste.

È vero che sembra esserci una forte correlazione tra l’insoddisfazione per le politiche nazionali e la sfiducia verso tutte le istituzioni, comprese quelle europee. Ma è anche vero che è diventato sempre più difficile separare le politiche nazionali da quelle europee, perché il quadro europeo è diventato progressivamente più vincolante e gli ambiti di competenza sono sempre più sovrapposte. Per questo tutti i leader europei dovrebbero guardare non solo all’economia, ma anche alle dinamiche politiche dei singoli paesi, come a una questione d’interesse comune.  L’Unione europea è una costruzione tanto complessa quanto delicata, come ci ha insegnato la Brexit, e per sostenerla occorrono, oggi più che mai, «sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano».

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