L’arte di essere liberi

Marco Panara

La maggior parte di noi, tutti quelli che non erano almeno adolescenti nel 1945 non l’avevano mai provato. Non avevamo l’esperienza di cosa volesse dire una riduzione della libertà. Ne avevamo invece visto l’aumento, dei costumi con il ’68, di movimento e comunicazione con l’evoluzione delle tecnologie e la riduzione dei prezzi. L’abbiamo vissuta la libertà, l’abbiamo bevuta come l’acqua, respirata come l’aria, ma forse non ne abbiamo mai misurato il valore e la portata come spesso accade con una cosa che c’è, che senza neanche rendercene conto diamo per scontata.

La libertà è un prisma, e sappiamo, e dovremmo sempre ricordare, quanto è stata dura conquistare alle generazioni che ci hanno preceduto, una delle sue facce, quella di pensiero, di parola, di associazione, quella politica, quella religiosa. Una libertà che è stata sanzionata nei diritti. Quella della quale, nei paesi fortunati dove quelle libertà sono sancite da costituzioni liberali, si occupa la storia del pensiero e dell’azione degli uomini.

Poi ci sono altre facce di quel prisma, la libertà sessuale per esempio, che ha un risvolto giuridico (qualcuno ricorderà ancora il rilievo penale dell’omosessualità e dell’adulterio e le leggi liberatorie sull’aborto e sul divorzio), ma anche uno importantissimo di costume, di cultura civile e diffusa.

La libertà di movimento, una conquista della quale la storiografia si è occupata meno ma che non è così ovvia. I contadini sono stati per millenni legati alla terra, soggetti alla geografia che la natura e il padrone assegnavano loro. Ma in quel caso la liberazione giuridica è solo un pezzo della storia, perché anche quando i vincoli giuridici sono scomparsi sono rimasti per secoli quelli economici e quelli tecnologici. Spostarsi e viaggiare fino a un secolo e mezzo fa era pericoloso, difficile, faticosissimo ed enormemente costoso. Gli aristocratici inglesi all’epoca del Grand Tour avevano la libertà e i mezzi per farlo, ma la fatica, i pericoli e le difficoltà esistevano anche per loro. Poi sono arrivate le ferrovie, le automobili e le strade asfaltate, gli aerei. E poi sono crollati i costi mentre aumentava la sicurezza. Mai siamo stati liberi di muoverci come in questi ultimi due decenni. E di comunicare, da vicino o a distanza, come stiamo quotidianamente sperimentando in queste settimane chiusi ciascuno nella propria casa e lontani dagli affetti.

Le facce del prisma sono innumerevoli, la libertà di impresa, la libertà di riunirsi, la libertà di godere le bellezze della natura o di un museo.

Mai nella storia erano state così ampie e alla portata non di tutti ma di un numero così alto di persone.

E mai avevamo sperimentato la privazione di una buona parte di loro. Abbiamo scoperto all’improvviso, causa epidemia, che dal rubinetto quell’acqua non esce più, che quell’aria non possiamo respirarla. Abbiamo sperimentato, stiamo sperimentando per la prima volta, per le generazioni del dopoguerra, non l’aumento delle libertà ma la privazione di alcune di esse.

È un virus questa volta e non la sciaguratezza di altri uomini a privarcene, forse per questo abbiamo accettato e subito la privazione con rassegnata pazienza. Forse per rispetto degli altri, perché non volevamo metterli a rischio, o forse per paura degli altri, che potessero essere loro a mettere a rischio la nostra salute.

Qualunque sia il sentimento che ci sta accompagnando in queste settimane c’è tuttavia un risultato che vale per tutti: l’esperienza della privazione della libertà. Che potrebbe, dovrebbe, portare con sé una nuova vitale consapevolezza del suo valore. Si dice che siano le prove della vita a formare gli uomini e a dare una forma alla società. Questa è la prima che sta valendo per tutti, che tutti possiamo acquisire la consapevolezza e capire che la libertà non è data, non è illimitata, non è ineluttabilmente conquistata.

La libertà una cosa preziosa, e adesso lo sappiamo.

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