L’asimmetria tra domanda e offerta di lavoro

Francesco Errico

Molti dei problemi con i quali abbiamo a che fare da un anno a questa parte sono, a ben guardare, l’acuirsi di difficoltà strutturali già esistenti. Non solo nel nostro Paese, bene inteso, ma per diversi di essi in particolare nel nostro Paese più che altrove.

È senz’altro il caso dell’asimmetria tra domanda e offerta di lavoro e della loro cronica difficoltà ad incontrarsi.

Ascoltiamo testimonianze e leggiamo di frequente che abbiamo tanti giovani disoccupati e, al tempo stesso, tante imprese che vorrebbero assumere personale ma non riescono a farlo, per una sostanziale inadeguatezza dell’offerta di lavoro: un paradosso. Insomma, accanto ai numerosi giovani scoraggiati, ci sono le imprese scoraggiate, che alla fine desistono e rimediano con accorgimenti organizzativi interni.

C’è scarsità di domanda di lavoro, si dice e forse è vero, soprattutto in un periodo di acuta difficoltà dell’andamento dell’economia, che ormai dura ininterrottamente da 12 anni.

C’è impreparazione e poca formazione mirata e di qualità erogata all’offerta di lavoro, si dice anche, perché invece la domanda di lavoro c’è. E anche questo è presumibilmente vero.

La cosa certa è che nell’ultimo trimestre del 2020, un anno drammatico, il sistema produttivo ha richiesto 730.000 nuovi addetti, insomma 730.000 potenziali posti di lavoro. Ne sono andati deserti 240.000, il 33%. Una quantità peraltro molto vicina a quella delle persone che, al termine del blocco dei licenziamenti, si calcola rischino seriamente di perdere un lavoro.

In sostanza e incredibilmente, se domanda e offerta di lavoro si incontrassero, il saldo finale assunzioni/licenziamenti in tempi di Covid-19 potrebbe sostanzialmente essere pari a 0. Ma purtroppo questo non avviene e non avverrà.

Se facciamo una proiezione su 12 mesi, che non pare affatto arbitraria, parliamo di qualcosa come un milione di posti di lavoro o quasi che restano scoperti. Un dato sconcertante.

Prima che di sussidi, di cassa integrazione e reddito di cittadinanza (strumenti di sostegno che possono essere opportuni e anche indispensabili in determinati momenti storici e per talune fasce di popolazione), bisognerebbe parlare di questo. Di come utilizzeremo le risorse che avremo a disposizione nel prossimo futuro per riequilibrare il paradosso più clamoroso ed insostenibile: far incontrare chi cerca manodopera con chi cerca un’occupazione.

Concettualmente, infatti, gli strumenti di sostegno e i sussidi vengono dopo, sono efficaci e sostenibili quando e se il mercato del lavoro funziona, quando è aperto, fluido ed inclusivo, oltre che equo e quando ogni lavoratore ed ogni lavoratrice dispongono della informazioni necessarie e delle azioni di orientamento e supporto utili alla ricerca del lavoro. In questo caso, le persone che necessitano di un sussidio sarebbero molte di meno e sarebbero davvero quelle che ne hanno diritto e bisogno.

Il Legislatore, approvando la più sistemica riforma del Diritto del Lavoro che probabilmente abbiamo mai conosciuto, ha inteso intervenire riequilibrando protezioni e tutele fra insiders e outsiders. È questo era forse doveroso. Ma non basta. Anche perché una parte importante del Jobs act è dedicata al rafforzamento delle politiche attive del lavoro e cioè all’aspetto security che bilanci la necessaria iniezione di flex. E questa parte è rimasta in buona sostanza inattuata. È tempo di attuarla.

La flexsecuruty (che il nostro Centro Studi convintamente sostiene) non può reggersi senza una gamba, senza cioè il sostegno a chi cerca lavoro ed a chi, per una ragione o per un’altra, si trova nella condizione di doverlo cambiare.

La dinamica dell’incontro fra chi cerca manodopera e chi cerca un impiego è l’incontro fra chi cerca competenze (sociali e tecniche) e chi le mette a disposizione. C’è qualcosa che non funziona se chi cerca queste abilità e queste competenze non riesca a trovarle, cioè non riesce a trovare persone adatte a ricoprire quei ruoli. E c’è qualcosa che non funziona se un’azienda che cerca personale non si rivolge al sistema dei servizi pubblici per l’impiego, supponendone non senza qualche ragione una sostanziale inefficacia, ma percorre strade diverse spesso, come abbiamo visto, senza successo.

In maggioranza questa difficoltà è riferita a professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione; operai specializzati; più in generale professioni tecniche (lo testimonia una recentissima inchiesta di Milena Gabanelli e Rita Querzè).

Non può uscire indenne da questa nostra breve analisi il sistema di formazione professionale. Si tengono tanti corsi, ma quanti di essi sono indirizzati e sono conseguenti ad una specifica domanda di lavoro? Quanti nascono e sono concepiti insieme al sistema delle imprese, per soddisfarne la richiesta di personale a un dato momento storico? Quale monitoraggio viene effettuato in ordine al placement al termine di ogni corso di formazione realizzato?

Nella maggior parte dei casi si tratta di professioni ad alto contenuto intellettuale, dove sarebbe necessaria una formazione di assoluta eccellenza, alta formazione, anche perché spesso essere diplomati, o anche laureati, è certamente un buon requisito di partenza, ma non è sufficiente.

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