L’Italia non più rurale

Nico Catalano

La regolarizzazione lavorativa, varata al fine di garantire diritti e opportunità alle tante lavoratrici e lavoratori, rappresenta sia una vittoria della civiltà sulla barbarie ma anche un importante passo in avanti per rendere moderno il mercato del lavoro. L’intervento varato dal governo Conte, nell’ambito del Decreto rilancio su proposta del ministro Bellanova, riguarda indistintamente i lavoratori stranieri e i cittadini italiani, e rappresenta solo il primo step di una lunga serie di interventi che uno Stato civile dovrebbe mettere in campo per contrastare l’atavica piaga dello sfruttamento lavorativo. Considerazioni queste che dovrebbero portare la politica tutta ad approcciarsi a questi temi, mettendo da parte quella visione ideologica e manichea che da sempre caratterizza nel nostro Paese il dibattito politico.

L’agricoltura, la cura delle persone non autonome e della casa, sono tra i settori maggiormente interessati dal provvedimento. Proprio il settore primario italiano, da diversi decenni è alle prese con alcune distorsioni: la diffusa presenza di frammentazione, dispersione fondiaria e polverizzazione, quelle patologie fondiarie tanto care al professor Serpieri, sommate alla storica incapacità italica di associarsi e cooperare rendono l’imprenditore agricolo sempre più fragile e vulnerabile alle politiche commerciali imposte dalla grande distribuzione organizzata. Di conseguenza lo stesso produttore è spesso costretto a comprimere i costi dei fattori della produzione, tra questi quello del lavoro, ricorrendo alle varie tipologie di lavoro grigio.

L’incidenza del settore sul Pil nazionale, dimostra come nel tempo l’Italia sia diventato un Paese agroindustriale che ha perso per strada la sua storica vocazione rurale. Una civiltà contadina, cancellata nel volgere di qualche decennio da un’urbanizzazione senza precedenti che ha cambiato la sociologia delle aree interne, ma anche i paesaggi rurali del Paese. Secondo i dati ISTAT attualmente vivono in città sette italiani su dieci, un dato che si prevede in continuo aumento, infatti si stima che nel 2045 due italiani su tre saranno residenti nelle grandi aree urbane del nostro Paese e occupati in settori diversi da quello primario. Inoltre, il vivere in campagna, storicamente è stato sinonimo di sacrifici e privazioni, peculiarità che hanno favorito sempre più l’esodo dalle campagne e l’abbandono delle mansioni agricole da parte delle giovani generazioni.

Lavori nei campi che di conseguenza, con il passare degli anni, hanno richiesto una quantità di manodopera straniera sempre maggiore. Difatti risalgono agli anni Settanta le ultime raccolte frutticole e vendemmie svolte senza la presenza di lavoratori immigrati. Un processo di ristrutturazione del settore agricolo italiano, analogo a quanto avvenuto negli ultimi tre decenni nelle agricolture avanzate di tutti i paesi industrializzati, dalla California, all’Andalusia sino alla Sassonia.

Le ultime stime elaborate dall’Istituto Nazionale di Economia Agraria (INEA) avallate dai dati forniti dall’INPS, dimostrano che nel nostro Paese i lavoratori agricoli stranieri comunitari e non, sono circa 420 mila, un numero enorme di occupati se confrontato al totale di addetti nel settore primario calcolato attorno a circa 940 mila. Un fenomeno crescente quello della manodopera agricola straniera, se si considera che lo stesso INEA stimava circa 50 mila lavoratori migranti nel lontano 1995 e poco più di 150 mila nel 2006. Provengono dal Maghreb, dall’Africa Subsahariana, Est Europa e India, oltre un terzo di essi ha un ingaggio irregolare, lavora sotto caporale ed è quotidianamente alle prese con una condizione di grave vulnerabilità sociale.

Da un recente studio condotto dalla UILA (Unione Italiana Lavoratori agroalimentari) si evince come nei comprensori agricoli altamente produttivi, motore del successo dell’agroalimentare made in Italy, che l’insigne economista agrario Manlio Rossi-Doria definisce letterariamente aree di polpa agricola senza la presenza di queste lavoratrici e lavoratori impiegati come braccianti nell’agroindustria, nell’agricoltura e negli allevamenti intensivi, il Barolo delle Langhe, le mele del Trentino, il Parmigiano Reggiano, la frutticoltura della bassa Veronese e della Romagna, le ciliegie del sud est Barese, i vini pregiati del Salento, le arance calabresi, i cereali e i pomodori del Tavoliere, l’uva da tavola dell’arco Jonico Pugliese e l’orticoltura dell’Agro Pontino, tutte eccellenze alimentari riconosciute come tali ed esportate in tutto il mondo, rischierebbero di diventare rarità e quindi, estinguersi in breve tempo con danni rilevanti per l’intera bilancia commerciale del nostro Paese.

L’agricoltura è un settore di punta della nostra economia, vanto degli italiani all’estero ma anche la fonte primaria del nostro sostentamento. In economia agraria la sotto remunerazione dei prodotti in un mercato è diretta conseguenza di quella dei fattori della produzione, pertanto sicurezza e diritti per i lavoratori significano anche maggiori redditi per gli stessi produttori. Il settore primario è vita perché questi braccianti in maggioranza rumeni, algerini, marocchini, tunisini, ivoriani e indiani, insieme ai loro colleghi italiani rimasti a lavorare la terra non producono solo valore economico ma anche nutrimento per milioni e milioni di persone, tale importanza l’abbiamo accertata durante il recente periodo di lockdowm.

In un mercato del lavoro che ha visto i lavoratori, sempre più ricattati dalla precarietà, privati di dignità e diritti, i braccianti stranieri che fuggono da guerre e carestie causate dai cambiamenti climatici o per le azioni predatorie delle multinazionali occidentali vivono le stesse condizioni di povertà, sfruttamento, emarginazione di tanti loro colleghi italiani. Paola Clemente, italiana di San Giorgio Jonico morta di stenti in un vigneto di Andria nel 2015, era una bracciante al pari del sudanese Mohamed Abdullah morto di sfruttamento nelle campagne di Nardò sempre lo stesso anno. Non è questione di nazionalità o di colore della pelle, regolarizzare è atto di civiltà e nel contempo un’opportunità per tutte e tutti.

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