Oltre il jobs act

Otto anni dopo

Maurizio Del Conte

Maurizio Del Conte, Francesco Errico

Ripudiare il Jobs act sembra essere la parola d’ordine per la nuova svolta identitaria della sinistra italiana. Questa operazione di damnatio memoriae, tuttavia, sembra poggiarsi su una sineddoche mendace che tende a ridurre la complessità di una Legge Delega e otto diversi Decreti attuativi alla mera revisione dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori.

Se si esce da questa visione al microscopio e si allarga lo sguardo al senso complessivo della riforma del 2015, si dovrebbe riconoscere che il suo scopo era quello di superare una concezione del posto di lavoro come job property, armonizzando il Diritto del Lavoro italiano a quelli, più equi ed inclusivi, della maggioranza dei Paesi europei. L’obiettivo di redistribuire in maniera più equa sia le opportunità che le tutele fra insiders e outsiders rappresentava un’esigenza che il mercato del lavoro italiano difficilmente poteva ancora rinviare nel tempo, così diviso e duale fra i tutelati ed un gran numero di esclusi da ogni protezione, in particolare giovani e donne.

Insomma, unire in un nuovo e più giusto equilibrio l’esigenza di flessibilità richiesta dal sistema produttivo (e non di rado gradita anche dai lavoratori) e il diritto a protezioni e tutele per tutti i lavoratori nel mercato del lavoro e non solo per pochi fortunati. Protezioni e tutele non dal mercato del lavoro, ma nel mercato del lavoro.

In altre parole, si trattava di favorire una distribuzione più equa della quota di flessibilità di cui il sistema delle imprese, nel nuovo millennio, necessita e che, invece, veniva scaricata tutta (troppa) solo su una parte della popolazione lavorativa perché l’altra parte, gli insiders, ne restava esente.

Non è secondario sottolineare che il Jobs act va dall’estensione degli ammortizzatori sociali alla riforma delle politiche attive del lavoro e tanto altro nella sfera dei diritti e del welfare. Insomma, cose di sinistra.

Se invece di ripudiare si volesse andare oltre applicando quella parte della riforma restata inattuata (pensiamo ad un perno fondamentale, la riforma del funzionamento delle politiche attive del lavoro per dare una prospettiva ed un sostegno indispensabili per chi deve inserirsi nel mondo del lavoro e a guidare le transizioni, ormai inevitabili e strutturali, da un lavoro ad un altro) sarebbe un bel passo in avanti.

Ma il dibattito politico-sindacale seguito all’approvazione della riforma si è concentrato quasi elusivamente sul Contratto a tutele crescenti e la conseguente revisione dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori.

Purtroppo, però, estrapolare un pezzo di disciplina senza collegarlo al resto del corpo normativo è una operazione fuorviante, scorretta. Così si finisce per dimenticare, ad esempio, che uno degli obbiettivi del Jobs act è stato quello di favorire l’assunzione con contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato contrastando le collaborazioni fintamente autonome.

Perché i critici del Jobs act non ricordano lo straordinario strumento di tutela del lavoro contenuto nell’articolo 2 del Decreto Legislativo n.81/2015? Perché non ricordano che è solo attraverso quella norma che i riders hanno trovato tutela davanti ai giudici, ottenendo le stesse protezioni dei lavoratori subordinati?  Perché non si dice che in un mercato del lavoro in cui la durata media di contratti di lavoro a tempo indeterminato non supera i quattro anni il Jobs act ha predisposto una serie di strumenti nuovi per favorire, in caso di licenziamento, la transizione verso un altro impiego (magari migliore e più performante), con il sostegno di adeguati ammortizzatori sociali, prendendo atto che la reintegrazione nel posto di lavoro rappresenta, fatti salvi i casi di licenziamento discriminatorio, un’arma spuntata?

Sempre se si accetta di guardare alla realtà dei numeri, a seguito della entrata in vigore della riforma non si è registrato alcun aumento della precarizzazione. Al contrario, ad otto anni dalla riforma, il numero di contratti a tempo indeterminato non è mai stato così elevato; ed il numero dei licenziamenti non è aumentato.

La nostra opinione è che sia meglio un mercato del lavoro in cui al posto del vecchio articolo18 ci siano servizi di supporto efficaci verso una nuova occupazione ed un trattamento di disoccupazione robusto e nel quale i lavoratori possono godere di un regime di protezione più coerente con i modelli di gestione delle politiche del lavoro di tipo europeo. Il vero obbiettivo non dovrebbe essere quello di garantire il posto fisso, ma quello di garantire l’occupabilità e l’accompagnamento nelle transizioni del lavoro, in una prospettiva di crescita personale e professionale. E questo è completamente di sinistra. Certo, non di una sinistra declamatoria e massimalista, ma di una liberale e riformista più al passo coi tempi.

Se è certamente vero che non sono le leggi a creare i posti di lavoro è però anche vero che la legge ha il compito, costituzionalmente sancito, di favorire l’occupazione e rimuovere gli ostacoli al suo sviluppo, come non di rado è capitato nel nostro Paese, affetto dal virus dell’ipertrofia legislativa.

Orbene, il tema non ci pare, allora, andare oltre o restare fermi. Il tema è, piuttosto, andare avanti o tornare indietro.

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