Barbie e il cinema nelle sale

Giorgio Simonelli

Scusate la battuta un po’ banale, ma che barba ’sta Barbie!  La solita americanata, ridondante, stucchevole con tutto quel rosa e quella ricostruzione scenografica del mondo di Barbie così minuziosa, con qualche sprazzo di realtà virtuale di cui non si può fare a meno per essere moderni e tecnologicamente aggiornati

Non siamo d’accordo.  Il rosa sarà una scelta un po’ prevedibile ma è una proposta cromatica coerente. Quanto alla scenografia, anche qui c’è un senso: da una parte barbieland, un mondo finto, fasullo, appunto virtuale, dall’altra il mondo reale, analogico, verosimile secondo i criteri di verosimiglianza hollywoodiani. Un po’ schematico, se volete, ma accettabile.

Ma poi, va bene che si parla di stereotipi, la protagonista della storia è uno stereotipo, la Barbie stereotipo, ma tutto il film è pieno di stereotipi. L’a.d. e i dirigenti della Mattel avidi e servili sembrano usciti da un film di Fantozzi, immancabile l’inseguimento in auto tra le strade di Los Angeles, la vecchia saggia creatrice di Barbie che alla fine del film tira fuori il suo monologo, pieno di cose sagge e persino commoventi per carità, ma siamo dalle parti di Frank Capra.

È vero proprio così, ma non vi siete accorti che la regista ci gioca con gli stereotipi, con il riferimento diffuso, consapevole a topoi cinematografici. La sequenza iniziale che ripete pari pari il celebre incipit di 2001 Odissea nello spazio con le bambole al posto dell’osso è strepitosa e indicativa della tendenza un po’ metacinematografica del film.

Va bene, ma a proposito di generi cinematografici, il musical non funziona proprio, non c’è una canzone che si ricordi. Poi, in generale, il racconto è didascalico e pieno di soluzioni narrative telefonate: i continui riferimenti ai livelli professionali alti che le donne, anzi le Barbie, devono conquistare (la corte suprema evocata ogni momento); l’incubo del patriarcato, la riconquista femminile del territorio ottenuta mettendo i Ken l’uno contro l’altro, pedissequo ribaltamento di un limite solitamente attribuito alle donne. E poi quel finale ambiguo con Barbie che va dal ginecologo. Perché? Si allude a una gravidanza? Al cinema di solito avviene così, quindi ancora una volta la vera identità femminile si conquista attraverso la maternità. Bel messaggio maschilista!

No! Ma così sottovalutate gli scartamenti narrativi, gli interventi spiazzanti di cui il film è pieno. L’incongrua fissazione di Ken per i cavalli così tipicamente western; la vecchia signora che di fronte al complimento di Barbie – Lei è bellissima – non si schermisce affatto, come sarebbe prevedibile, ma ti spiazza con un bel: lo so. E poi la chicca, la voce fuori campo che, nella scena in cui Barbie è depressa e bruttina, avverte gli autori che con Margot Robbie questo non si riesce a fare. La mitica, straniante separazione tra attore e personaggio, come faceva Godard. Quanto al ginecologo, perché dovrebbe essere incinta? È solo il segno della recuperata femminilità, anche a livello sessuale. E comunque un bel ribaltamento: al posto del solito finale enfatico, sentimentale, una banale visita medica come happy end è una bella sorpresa. Su dai! Ma non siete contenti che ’sta Barbie ha salvato la stagione, ha riempito le sale a luglio e agosto, cosa mai vista. Il cinema è vivo, viva il cinema nelle sale!

 Be’ su questo siamo d’accordo.

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