Parlamento di minoranze

Piero Ignazi

Con scarsa fantasia tutti i commenti susseguenti all’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale si sono scatenati contro i partiti. La loro colpa non si capisce ben quale sia, però. Forse quella di non aver trovato subito un accordo alla prima votazione?

Beh, sarebbe veramente bizzarra una considerazione di questo genere per una serie di motivi, il primo dei quali è che ciò è accaduto solo due volte nella storia della repubblica, con Francesco Cossiga nel 1985 e con Carlo Azeglio Ciampi nel 1999. In tutte le altre occasioni si è andato avanti per giorni e giorni, addirittura per settimane intere arrivando a votare Giovanni Leone al 21° scrutinio, alla vigilia di Natale.

Per quale motivo una decisione così importante doveva essere adottata subito?

La «situazione del Paese», come si dice con fastidiosa frase fatta, lo imponeva. Eppure, non era certo peggiore di quella del giugno-luglio 1978 quando dopo 16 votazioni alla fine emerse il nome di Sandro Pertini. Per gli smemorati va ricordato che, allora, da pochi mesi era stato ucciso Aldo Moro dalle Brigate Rosse che il presidente Giovanni Leone si era dovuto dimettere per il suo supposto coinvolgimento in un episodio di corruzione. Inoltre, l’inflazione era a due cifre, la crescita economica stagnava e la violenza politica dilagava. Tutt’altro mondo rispetto all’assenza di proteste di questi mesi se non per quei quattro gatti di no-vax oramai in ritarata, così come in ritirata appare il Covid, tra vaccini e nuovi farmaci. Nonostante ciò, non si disse che i partiti erano incapaci, che la politica non sapeva che pesci pigliare, eccetera.

Con un po’ di razionalità, allora, andiamo a vedere le eventuali peculiarità di queste elezioni. Ma tenendo conto che quanto accaduto non ha nulla a che vedere con una supposta crisi dei partiti. Perché, a questo proposito, va precisato che in tutte le democrazie mature i partiti non godono da tempo di buona fama, e che molti cittadini voltano le spalle alla politica. Quindi, per una volta, non facciamo eccezione. Siamo di fronte ad un problema più generale che è in buona misura slegato dagli ultimi eventi di casa nostra.

Le difficoltà di queste elezioni presidenziali – anche se giustamente il presidente della Conferenza delle Regioni, il leghista Massimiliano Fedriga, ricordava che in altri Paesi si impiegano mesi e mesi prima di formare un governo senza che nessuno si stracci le vesti – sono dipese da due ordini di fattori, uno contingente, uno strutturale, legato a questa legislatura.

L’elemento contingente ha un nome e cognome, Silvio Berlusconi. Da quando la destra ha accettato di considerare Berlusconi un suo candidato, ogni eventuale accordo tra le parti diventava semplicemente impossibile. Inutile ripetere qui i mille e uno motivi per i quali anche solo la prospettiva di Berlusconi presidente era irricevibile: tra fedina penale non immacolata, amicizie pericolose, disastri nella gestione governativa, conflitti di interesse, solidarietà putiniane e comportamenti personali licenziosi (curioso come il metoo italiano sia stata del tutto silente sul punto…), non si sa cosa sia più inabilitante per accedere alla più alta carica della Repubblica.

L’insistenza cocciuta e capricciosa su questo nome ha impedito che sinistra e destra potessero parlarsi. Il parlarsi non era questione di galateo ma una necessità dovuta al panorama delle forze parlamentari.

E qui veniamo all’elemento strutturale. Enrico Letta aveva ragione nel ripetere che questo è un parlamento di minoranze, dove non esiste una componente così forte ed omogena da poter imporre il proprio candidato. Pertanto, l’accordo da trovare esigeva che entrambe le parti evitassero di presentare i propri leader politici.  Per l’incapricciamento senile di Berlusconi si sono perse settimane preziose e si è arrivati al momento delle votazioni con nervi già tesi e in assetto da guerra. Tanto che la destra ha ripetuto per giorni che aveva lei il diritto (divino forse?) di presentare un candidato che gli altri avevano il dovere (vae victis?) di accettare. Per fortuna i capitomboli del capitano Salvini hanno spianato la strada ad un accordo che non poteva che dirigersi sulle due figure istituzionali super partes, Draghi o Mattarella.

Connessa al governo delle minoranze c’era poi un’altra asperità da affrontare in queste elezioni: l’inesistenza di una maggioranza politica. Il governo Draghi è anomalo, una sorta di esecutivo di unità nazionale dove convivono il diavolo e l’acqua santa. Questo schieramento aveva i numeri per scegliere un Capo dello Stato, e così alla fine è successo, ma non disponeva della sintonia politica per operare una scelta politica. Ogni scelta di tal genere sarebbe stata divisiva e avrebbe fatto saltare il governo. Per questa ragione la ricerca del tecnico è diventata affannosa negli ultimi giorni, senza tuttavia produrre alcun esito.

Infine, una ultima anomalia. In questo parlamento il gruppo più consistente è composto da esponenti di una formazione, il Movimento 5 Stelle, che sono in gran parte naïve, senza una consolidata esperienza politica, anche se ormai siedono tra gli scranni di Montecitorio e di Palazzo Madama da quattro anni e alcuni da nove anni. La loro inesperienza, e la gestione ondivaga e scriteriata di Giuseppe Conte, hanno privato le trattative di un centro di gravità. Quando il maggior gruppo parlamentare si rivela così evanescente, tutto si complica.

In conclusione, meglio lasciar perdere le geremiadi sul declino dei partiti. Un confronto di sette giorni dove le parti si scontrano riflette la fisiologia della politica. Così come è sano che si arrivi poi ad un compromesso che coinvolga molti. Trapela invece in molti commenti, e questo sì è preoccupante, una sorta di nostalgia per l’unanimità confezionata da un buon Leviatano, che dirime per noi i contrasti. Una nostalgia per un piccolo-grande padre che provvede e sorveglia. O un grande fratello che ci solleva dagli affanni delle decisioni anche conflittuali. Ricacciamo le tentazioni orwelliane. La democrazia è sano e regolato conflitto, e quindi può richiedere qualche giorno di pazienza per trovare una buona soluzione. Accettiamolo.

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