Verso le elezioni politiche europee, tra inquietudini e pronostici

Antonia Carparelli

Tra il 6 e il 9 giugno circa quattrocento milioni di cittadini europei saranno invitati alle urne per l’elezione del Parlamento europeo e il rinnovo dei vertici delle istituzioni.  Le inchieste di opinione dell’Eurobarometro, l’ultima risale a dicembre scorso, ci dicono che, rispetto alle precedenti elezioni europee del 2019, c’è maggiore interesse da parte dei cittadini e che, se le elezioni si tenessero in questi giorni, oltre due terzi degli intervistati (il 68% per l’esattezza) andrebbero probabilmente a votare.  Un dato che fa ben sperare.

Già le scorse elezioni avevano segnato una significativa inversione di tendenza nella partecipazione al voto. Dal 1979 in poi la percentuale dei votanti era andata costantemente diminuendo, fino a scendere al 42,6% nel 2014. Nel 2019 invece votarono il 50,6% degli elettori: un balzo di ben otto punti percentuali rispetto alle elezioni precedenti. Un altro rialzo nella partecipazione al voto sarebbe un chiaro segnale che l’opinione pubblica percepisce la crescente importanza della dimensione europea.

Nonostante l’inesorabile invecchiamento demografico della popolazione europea, le prossime elezioni segneranno un ringiovanimento della platea dei votanti, perché nel frattempo la Germania e il Belgio hanno abbassato a 16 anni l’età richiesta per l’esercizio del voto; l’Austria e Malta lo avevano già fatto prima delle precedenti elezioni, come pure la Grecia, che però si è fermata a 17 anni. Un’altra novità di questa decima tornata elettorale del Parlamento europeo riguarda il numero dei parlamentari, che passeranno da 705 a 720, per bilanciare i diversi andamenti demografici negli stati membri. Per l’Italia non ci saranno cambiamenti, gli eurodeputati italiani resteranno in tutto 76, mentre Spagna, Francia e Paesi Bassi avranno due parlamentari in più e altri nove paesi ne guadagneranno uno.

Queste, al momento, le principali novità del processo elettorale.

Non ci saranno invece, neppure in questa decima tornata, le innovazioni richieste a gran voce dai movimenti europeisti e dai cittadini che avevano partecipato alla Conferenza sul futuro dell’Europa, volte a rafforzare la dimensione europea delle elezioni. Più volte il Parlamento europeo si era espresso in tal senso e poco meno di due anni fa, il 3 maggio del 2022, aveva approvato un rapporto sulla riforma della legge elettorale europea che chiedeva, tra le altre cose, l’elezione di una piccola quota di deputati in un collegio unico europeo per il tramite di liste transnazionali; la generalizzazione della possibilità di voto per corrispondenza; una data comune, il 9 maggio, per il voto europeo;  una maggiore armonizzazione delle procedure elettorali (età per l’esercizio di voto, la durata della campagna elettorale, le regole per assicurare l’equilibrio di genere, ecc…).

Il rapporto conteneva anche proposte per migliorare la trasparenza del processo elettorale e contrastare la disinformazione.  Ma i governi, divisi sui punti più cruciali, al momento non hanno accolto nessuna di queste proposte.

Senza le riforme e le correzioni sollecitate dal Parlamento è quasi inevitabile che le elezioni europee continuino a somigliare a un’edizione speciale delle elezioni nazionali; che restino essenzialmente un’occasione per misurare i rapporti di forza tra i partiti in campo, e servano in qualche caso a ricollocare candidati rimasti fuori dalle aule parlamentari o da cariche governative nel contesto nazionale. Eppure, ci sarebbe un grande bisogno di europeizzare il confronto politico. Ci sarebbe bisogno di alzare lo sguardo oltre la politica nazionale e riconoscere che molti dei grandi problemi che abbiamo di fronte, dalla sicurezza alla gestione delle migrazioni, dal cambiamento climatico alla salvaguardia dell’ambiente, dalla protezione della salute collettiva alla difesa dei diritti dei consumatori, dalla competitività delle nostre imprese alla crescita economica, possono trovare soluzioni durevoli soltanto a livello europeo.

Sarebbe importante dare più spazio alle donne e agli uomini che si candidano al Parlamento europeo, sapere qual è l’idea di Europa per cui sono pronti a battersi, quali le priorità per cui intendono lavorare, quali sono le loro qualifiche e le loro competenze. Perché nell’arena politica europea si vince soprattutto con la conoscenza, con le competenze e con la capacità di argomentare e difendere le proprie ragioni. Sono le persone competenti che accedono alle cariche più prestigiose, che partecipano alle commissioni parlamentari più importanti, che assumono il ruolo di relatore o relatrice per le proposte legislative più rilevanti, che riescono maggiormente a influenzare la posizione dei gruppi politici che si formano in seno al parlamento europeo.

Naturalmente contano anche le appartenenze, le alleanze e le maggioranze politiche.

Giorgio Napolitano divenne presidente della Commissione Affari Costituzionali del Parlamento europeo in virtù delle sue capacità personali, ma anche in quanto esponente di un gruppo politico di peso. Antonio Tajani e David Sassoli hanno ricoperto la carica di presidente del Parlamento europeo non soltanto per le loro indubbie qualità personali, ma anche per via della loro collocazione politica e dell’azione diplomatica di costruzione delle alleanze.

Veniamo dunque agli equilibri politici e a come potrebbero cambiare in seguito alle elezioni.

Nell’attuale Parlamento europeo ci sono sette gruppi politici. Il primo è quello dei popolari (EPP) che detiene circa un quarto dei seggi (24,23%); seguono il gruppo dei socialisti e democratici (S&D) con circa un quinto dei seggi (20,51%) e quello dei liberali (Renew Europe) con il 14,38%; i verdi (Greens/EFA) sono poco al di sotto del 10% (9,85%), come pure il gruppo dei partiti identitari e sovranisti (ID, 9,72%); più o meno analogo  il peso del gruppo dei partiti della destra conservatrice e nazionalista (ECR  8,26%); chiude l’elenco il raggruppamento dei partiti a sinistra dei socialisti, con il 5,46% dei seggi. Per completare il quadro vanno aggiunti i non iscritti, che occupano in totale il 7,59% dei seggi.

La maggioranza parlamentare che nel 2019 ha votato la fiducia all’esecutivo europeo attualmente in carica, presieduto da Ursula von der Leyen, è stata una maggioranza di misura (383 voti), con soli nove voti in più di quelli necessari. Vi hanno concorso tutti e tre i maggiori gruppi politici (popolari, socialdemocratici e liberali), a cui si sono aggiunti alcuni esponenti di altri raggruppamenti, come i deputati polacchi del gruppo conservatore e quelli italiani del Movimento 5 Stelle.

Non è stato facile governare con quella che nel linguaggio politico-giornalistico è stata definita la Maggioranza Ursula, sia per la sua esiguità sia per la sua grande eterogeneità.  Spesso sono stati necessari compromessi al ribasso, che hanno diluito le proposte della Commissione e sminuito il ruolo propulsivo del Parlamento nei confronti del Consiglio. Ciò nonostante, la Commissione von der Leyen è riuscita a far passare iniziative importanti, come il Green Deal Europeo, con la legge europea sul clima, e Next Generation EU, con i piani nazionali per la ripresa e la resilienza.

Quali sono le probabilità che il parlamento che scaturirà dalle elezioni di giugno prossimo esprima di nuovo una qualche sorta di Maggioranza Ursula, ovvero una maggioranza ancora incentrata su popolari, socialdemocratici e liberali, con o senza eventuali rinforzi di altra provenienza? Questo è l’interrogativo con cui si misura chiunque provi a immaginare gli scenari post-elettorali, e che prescinde dalla candidatura della stessa von der Leyen, la quale peraltro non ha ancora dichiarato ufficialmente il suo interesse per un secondo mandato. Un interrogativo al quale al momento è difficile rispondere, perché giugno non è così vicino e prima di allora possono accadere molte cose; perché i partiti politici europei devono ancora giocare le loro carte e pronunciarsi sui loro candidati di punta per la presidenza della Commissione europea, i cosiddetti Spitzenkandidaten; perché viviamo in tempi di alta volatilità degli elettorati per cui le tendenze che emergono dai sondaggi potrebbero rapidamente cambiare. Quel che è certo è che dal 2019 ad oggi gli equilibri politici in molti paesi dell’Unione sono cambiati. L’Italia non è il solo Paese in cui ci sono stati massicci spostamenti nei rapporti di forza tra i partiti, e anche se le leggi elettorali europee spesso sono diverse da quelle nazionali, sembra inevitabile che il voto europeo rifletta in qualche misura questi mutamenti.

Cosa dicono i sondaggi?

Stando ai risultati delle inchieste condotte da POLITICO Europe, un’importante testata giornalistica che si occupa di affari europei, se si votasse oggi assisteremmo ad un ridimensionamento dei tre principali raggruppamenti politici, che perderebbero in complesso oltre sette punti percentuali.

I più penalizzati sarebbero i liberali, che perderebbero all’incirca una ventina di deputati, a fronte di un indebolimento molto più contenuto dei popolari e di una sostanziale tenuta dei socialdemocratici. Gli altri grandi perdenti sarebbero i verdi, che vedrebbero quasi dimezzato il loro peso. Anche la destra conservatrice e nazionalista risulterebbe leggermente ridimensionata, mentre dal lato dei vincitori ci sarebbe soprattutto il raggruppamento identitario e sovranista, che diventerebbe il terzo gruppo politico, più numeroso dei liberali. In lieve ascesa anche i partiti dell’estrema sinistra, il cui peso politico resterebbe comunque poco al di sopra del 5%. I sondaggi danno conto di un cospicuo infoltimento della sezione dei non iscritti, un dato che tuttavia si spiega in larga misura con le incertezze ancora legate alla formazione delle liste elettorali.

Nell’insieme, dunque, si assisterebbe a uno spostamento dell’asse politico dal centro moderato verso la destra identitaria e sovranista, con un importante ridimensionamento dei liberali e dei verdi. Sulla carta, una maggioranza costituita da popolari, socialdemocratici e liberali sarebbe ancora possibile, ma con margini davvero molto esigui. Sempre sulla carta, una coalizione di tutti i partiti di centro-destra, inclusa la destra identitaria e sovranista, che lascerebbe fuori i socialisti, avrebbe una maggioranza più robusta.  La forte presenza di orientamenti euroscettici nel gruppo di Identità e Democrazia ne fanno un alleato molto scomodo, probabilmente inaccettabile per buona parte dei popolari e ancor più per i liberali. In altre parole, almeno sulla carta, una riedizione della Maggioranza Ursula sembra ancora lo scenario più plausibile, anche se probabilmente al prezzo di una accresciuta eterogeneità e di una maggiore dipendenza dal sostegno di esponenti della destra conservatrice.

Non è una prospettiva rassicurante. Una maggioranza parlamentare ancora più eterogenea e potenzialmente più instabile di quella attuale significa un denominatore comune ancora più basso, oltre che una minore influenza del Parlamento sul Consiglio, e questo proprio mentre le sfide che l’Europa ha davanti sembrano richiedere una grande capacità di volare alto.

In un mondo dilaniato da sanguinose guerre regionali e da innumerevoli conflitti che rischiano di esplodere, l’Europa non può permettersi minimalismi e temporeggiamenti nella costruzione di una difesa comune.

La guerra russo-ucraina e le tensioni tra la Russia e i paesi confinanti dell’UE, in particolare, impongono all’Unione di diventare a pieno titolo un soggetto geopolitico, capace di esprimere una politica estera comune e di dotarsi degli strumenti adeguati a perseguirla. Analogamente, l’Europa non può continuare a ignorare i fattori che la inchiodano a una crescita economica stentata, caratterizzata da bassa produttività e insufficienza di investimenti nei settori strategici. Non può rinunciare a mobilitare le risorse necessarie per affrontare con successo la doppia transizione climatica e digitale. E non può permettersi un’unione monetaria incompleta, che pone una pesante ipoteca sulla tenuta e la stabilità dell’area. L’elenco delle sfide da affrontare in realtà è piuttosto lungo: include temi come l’autonomia energetica, il funzionamento del mercato interno, le migrazioni, la difesa dello stato di diritto, la competizione fiscale, e via discorrendo. Per non parlare del rischio di dover fare i conti con un drammatico ripiegamento isolazionista e protezionista degli Stati Uniti qualora Donald Trump dovesse vincere le prossime elezioni presidenziali.

Al tempo stesso, proprio le crisi che gravano minacciose potrebbero indurre le istituzioni europee a superare sé stesse, a spingersi con decisione oltre il minimo comune denominatore. L’Europa cresce attraverso le crisi, aveva previsto Jean Monnet, anche se non sempre e non sempre brillantemente, si potrebbe aggiungere. Ma è successo in vari momenti della nostra storia, e ancora di recente, quando si è trattato di reagire alla crisi pandemica, con il lancio di Next Generation EU e dei piani nazionali per la ripresa e la resilienza, ed è successo, almeno in parte, con la guerra russo-ucraina. Potrebbe ancora succedere, a dispetto di sovranismi e nazionalismi, di fronte all’evidenza che i singoli paesi non sono in grado di far fronte alle crisi incombenti.

Leggi anche