Ci sedemmo dalla parte del torto perché gli altri posti erano occupati

Dino Amenduni

È una famosa e molto suggestiva frase di Bertolt Brecht che è tornata popolare in queste ore in Italia perché è entrata nel dibattito parlamentare a margine dello scontato e largo voto di fiducia al Governo Draghi. L’ha usata Giorgia Meloni, che al momento rappresenta l’unica forza di opposizione strutturata (aspettando i resti di Sinistra Italiana e la riorganizzazione degli espulsi dal M5S), per sottolineare la volontà di sottrarsi a un clima di normalizzazione che il paese, a partire dai media, sta provando ad autoimporsi in occasione della nascita del nuovo esecutivo di «unità nazionale».

Chiarito il contesto e le ragioni tattiche che hanno spinto Meloni a utilizzare proprio quella citazione, può essere opportuno ricordare che Brecht è fuggito in esilio il giorno dopo il Reichstag (l’incendio del parlamento tedesco del 1933, che simbolicamente ha rappresentato il definitivo avvento del nazionalsocialismo hitleriano) e che i suoi libri furono più volte messi al rogo in Germania.

Chiaramente non lo possiamo sapere con certezza, ma dato il suo vissuto personale e data la storia politica di Meloni è piuttosto difficile immaginare che Brecht avrebbe potuto apprezzare di essere citato da Giorgia Meloni in Parlamento.

Dal punto di vista simbolico una citazione di Brecht da parte di Giorgia Meloni potrebbe equivalere a una citazione di Ezra Pound da parte di Nicola Zingaretti: ossia qualcosa di completamente scollegato dal punto di vista politico e culturale.

Eppure la circostanza non ha generato chissà quale sconvolgimento da parte dell’opinione pubblica. La circostanza per cui Meloni cita Brecht è stata percepita come qualcosa di insolito, ma tutto sommato accettabile. Come si è arrivati fin qui?

Le questioni, a mio avviso, sono due.

La prima è l’abuso del citazionismo come forma di espressione della propria identità. Prendere frasi da grandi pensatori del passato e decontestualizzarle all’occorrenza non è certamente una novità: non molto tempo fa, per esempio, abbiamo assistito alla parossistica doppia citazione di Aldo Moro da parte di Giuseppe Conte e Matteo Renzi, che stavano usando lo stesso riferimento politico per provare a delegittimarsi reciprocamente.

Questo tipo di abitudine è invero piuttosto frequente anche nei comportamenti di singoli individui sui social media: quante volte vi sarà capitato di incrociare una foto di un utente con una frase che non aveva veramente nulla a che fare con la citazione che ne accompagnava la pubblicazione (se non nella testa di chi aveva immaginato quell’accostamento)?

La seconda questione è più grande e riguarda in generale la politica. Cito un estratto da un interessante approfondimento di Lorenzo De Sio (professore ordinario di Scienza Politica alla Luiss) sull’origine dei governi tecnici: «Il principale aspetto inverosimile dell’ideale tecnocratico – un aspetto in comune con il populismo – è la negazione del pluralismo. Già, ma cos’è il pluralismo? Si tratta, semplicemente, del riconoscere che la società è caratterizzata da persone che hanno idee, e soprattutto interessi diversi e contrapposti tra loro».

Va da sé che se il PD governa con la Lega e il M5S accetta di stare allo stesso tavolo del consiglio dei Ministri con Forza Italia, le differenze culturali sono fisiologicamente azzerate, almeno nella rappresentazione di palazzo.

Al netto del prestigio di Mario Draghi, la maggioranza che lo rappresenta è una sorta di vale tutto per la politica. E se vale tutto, vale anche il tentativo di appropriazione di bandiere culturali distantissime dalla propria, come ha fatto Giorgia Meloni. Ma il governo di tutti è quello in cui si rischia di non discutere su nulla di divisivo, a partire dai diritti individuali e collettivi.

«Falso quel nome assegnatoci sempre trovai:
emigrante.
Significa esule, si sa. Ma noi
esuli non eravamo per libera scelta
scegliendo altro paese.
[…]
Noi fuggivamo scacciati, banditi
Né è una nuova patria, esilio è la terra
che ci accoglie…».

Anche questa citazione è di Bertolt Brecht, ma difficilmente la ascolteremo da Giorgia Meloni, e in generale dall’attuale Parlamento italiano.

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