Concertare lo sviluppo

Daniela Fumarola

La via della corresponsabilità per far ripartire crescita e coesione

Non è facile fare previsioni su quello che sarà dopo queste settimane di strade deserte e fabbriche ferme, forse dovremmo tutti ammettere i dubbi e le preoccupazioni su un futuro prossimo che appare ancora indefinito. In ogni caso queste incertezze sicuramente non possono smarcarci da un impegno comune per far rialzare tutta l’Italia, piegata dai lutti e dalle difficoltà economiche ma ancora in grado di reagire nonostante numeri da Apocalisse: secondo lo stesso documento di economia e finanza del Governo, nel 2020 il Pil dovrebbe calare dell’8%, il deficit pubblico dovrebbe attestarsi al 10,4% e il debito raggiungere il 155,7% a fronte del 134,8 % di fine 2018. Mentre secondo Unioncamere Puglia entro il 2021 nella regione si potrebbero perdere 20mila imprese e 69mila posti di lavoro. Segnali di una crisi che si prospetta addirittura più pesante di quella già drammatica del 2008/2009. I dati Istat sul primo trimestre indicano per l’Italia un calo del 4,7% e del 3,8% nell’Eurozona.

Credo che opportunamente Annamaria Furlan abbia ricordato le parole di Giulio Pastore il giorno della fondazione della Cisl, 70 anni fa, il 30 aprile del 1950 al Teatro Adriano a Roma: «bisogna saper parlare con sincerità ai lavoratori, nulla nascondere e nulla ampliare. Onestà, rettitudine, laboriosità, disinteresse sono tutte virtù di cui noi dovremmo essere in possesso». Sono le parole degli anni del dopoguerra che, tra povertà e problemi economici, tra mille sacrifici portarono comunque al boom economico, alla rinascita di un Paese in ginocchio. Oggi più che mai dobbiamo parlare chiaro a tutti i lavoratori, a tutta la società ma anche alle singole persone che hanno vissuto con affanno queste lunghissime settimane di clausura.

È, probabilmente, vero che dopo questo lockdown nulla sarà come prima, innanzi tutto perché noi stessi non siamo quelli di qualche mese addietro. Ci sarà un mutamento nel lavoro, nel modo di produrre, nei tempi e nella stessa organizzazione quotidiana, con una maggiore diffusione del lavoro da casa, lo smart working e un utilizzo delle tecnologie che forse non immaginavamo nemmeno fosse possibile in questa misura. Il sindacato dovrà affrontare i mutamenti, dovrà pensare ad accordi innovativi, bisognerà pensare a servizi pubblici diversi ma anche a come coniugare diversamente famiglia e lavoro evitando i pericoli di una sorta di spersonalizzazione, di riduzione delle relazioni sociali camuffate da innovazione tecnologica, in altre parole una disumanizzazione. Tutto ciò non vuol dire un minor uso dell’informatica, anzi, bisognerebbe chiedersi come saremmo stati in queste settimane senza internet, altro che smart working, e-learning, e-commerce e così via, basterebbe dire che il traffico dati in rete è aumentato del 40-70% in download, un incremento che in una famiglia non è sostenibile con la vecchia adsl normale e che invece la fibra ottica è in grado di reggere.

Senza paura del cambiamento, sarà necessario tenere ben saldi i principi fondativi del nostro associarci, di essere comunità ma con una forte responsabilità individuale, valori che sono stati e sono alla base della costruzione dell’Italia democratica con una coesione sociale che sia argine alla demagogia e al populismo. Un argine che valga in Italia come in Europa di cui è auspicabile una vera nuova fase costituente superando egoismi meschini e miopi che finiscono per danneggiare tutti i Paesi, grandi e piccoli, ricchi e poveri, consapevoli che si può ripartire solo tutti insieme, un discorso che vale anche per l’Italia, quando si parla di Nord e Sud. Bisogna essere consapevoli che non basta l’assistenza e che senza impresa non c’è lavoro e senza lavoro non c’è sviluppo.

Dovremmo affrontare in termini sistemici il tema delle diseguaglianze. Si tratta di imparare dai gravi errori del passato, sbloccando il turnover nella sanità e riscattando il ruolo del lavoro pubblico, consolidando la rete di protezione sociale rivolta agli anziani e alla non autosufficienza. C’è da promuovere l’accesso al lavoro, alla formazione, alle nuove tecnologie abilitanti; da far ripartire gli investimenti pubblici, riallineando ricerca e innovazione, infrastrutture materiali e servizi. In questo contesto il ruolo del sindacato diventa ancor più cruciale di un tempo perché ancor più soggetto centrale del cambiamento e dello sviluppo. Il tema è tutt’altro che teorico, anzi è molto concreto e investe la vita quotidiana di ognuno che può divenire più sociale o più individualistica e isolata e quindi più debole, specie se la piattaforma di confronto si limita alla mera razionalizzazione produttivistica, finalizzata alla sola logica del profitto.

É indubbio che l’impatto della pandemia sarà pesante, e sarebbe sciocco non valutarlo, ma sarebbe altrettanto sciocco non tener conto della capacità di reazione di un Paese che è migliore di quello che troppo spesso viene dipinto, proprio come nel dopoguerra:  «nel 1945 – ha ricordato il fondatore del Censis, Giuseppe De Rita – eravamo straccioni e lo Stato non poteva aiutare nessuno, al massimo qualche pensione di guerra e un po’ di edilizia, eppure tutti si rimisero a faticare senza risparmiarsi; proprio perché è una crisi così profonda la si risolve con uno scatto di ognuno di noi».

In questo scenario diventa centrale la questione del Mezzogiorno, che rischia di aumentare il suo gap rispetto al resto del Paese e che con l’aggravarsi della disoccupazione rischia anche forti tensioni sociali. L’unica vera alternativa passa per una nuova capacità di concertazione troppo spesso disattesa negli ultimi tempi. Serve un patto sociale, un rapporto costante tra le istituzioni (anche tra i vari livelli tra loro Stato centrale, Regioni, Comuni), nazionali ma anche locali, e le parti sociali, una capacità di fare squadra che superi le minuzie delle polemiche di piccolo cabotaggio, della conquista di consenso in vista delle scadenze elettorali, nella convinzione che in gioco non è il colore della prossima coalizione di governo, a Roma come a Bari, ma la tenuta stessa del sistema Paese.

La storia ci ha dimostrato che disastri può provocare la verticalizzazione del potere: occorre un confronto partecipato, un perimetro di corresponsabilità che coinvolga tutte le intelligenze sociali e punti a obiettivi strategici comuni. Perché la pandemia è sicuramente molto pericolosa, e per affrontarla non possiamo che affidarci alla medicina, alla scienza ed al nostro senso di responsabilità, ma anche la povertà e la paralisi economica e sociale possono essere devastanti senza solidarietà e capacità di fare squadra nell’interesse comune.

Leggi anche