El Pibe de Oro

Oscar Buonamano

«Una giornalista chiese alla teologa tedesca Dorothee Sölle: “Come spiegherebbe a un bambino che cosa è la felicità?” “Non glielo spiegherei”, rispose, “gli darei un pallone per farlo giocare», lo scrive Edoardo Galeano in uno dei libri più belli dedicati al calcio.

In queste ore un effluvio di parole ha inondato la rete, le televisioni, i giornali di tutto il mondo. E però mai come questa volta si ha la sensazione che tutte queste parole non solo non siano inutili e ripetitive, ma siano perfino necessarie. Necessarie per comprendere quanta felicità abbia regalato a tanti, quanta felicità abbia regalato al popolo. Quanta ne continuerà a regalare.

Non si può spiegare in altro modo questo sentimento popolare che attraversa tutto il mondo. Alto e basso. Colto e ignorante. Bello e brutto. Educato e maleducato. Legale e illegale. Consapevole e inconsapevole.

In un mondo senza più dei e senza Dio, Maradona è l’ultimo eroe mitologico che parla un linguaggio universale. Una lingua che tutti sono in grado di comprendere.

«Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro» scrisse Pier Paolo Pasolini. Non aveva visto giocare Maradona, ma in quel mondo che procedeva a passi spediti verso una globalizzazione omologante, il più grande intellettuale italiano del Novecento ci spiegò che il calcio con i suoi protagonisti era, appunto, una rappresentazione sacra.

Maradona è il calcio e dunque Maradona è rito nel fondo.

Il 19 aprile 1989 la sua squadra, il Napoli, gioca a Monaco di Baviera e conquista la finale di Coppa Uefa, la prima per la squadra partenopea. Questo basterebbe per passare direttamente dalla cronaca sportiva alla storia di una città. E invece ciò che ancora oggi tutti ricordano e rivedono con la stessa gioia negli occhi e nel cuore è il riscaldamento prepartita del Pibe de Oro. Non c’è niente di preparato o di studiato a tavolino. Parte la musica, Life is Life, e il bambino che è in lui si risveglia. Comincia a palleggiare, a danzare, in mezzo al campo a ritmo di musica con il pallone che sembra essere incollato sui piedi, sulle spalle, sulla testa, sui tacchi. Ovunque.

Quattro anni prima, il 3 novembre 1985, si gioca Napoli-Juventus. Piove, il campo è bagnato, lo stadio è pieno in ogni ordine di posto ed è un’enorme distesa di ombrelli. Mancano diciotto minuti alla fine della partita, si è sullo 0-0. L’arbitro concede una punizione di seconda a favore del Napoli. La palla è dentro l’area di rigore della Juventus, la barriera è vicinissima alla palla meno di sei metri, certamente non i nove metri e 15 come richiesto da regolamento. Eraldo Pecci che è vicino a Maradona gli sussurra «non puoi tirare da qui, è troppo vicino». «Segno lo stesso», risponde Diego. L’arbitro fischia, tutto è sospeso, anche la pioggia per un attimo si ferma. Il piede sinistro di Maradona s’incunea tra l’erba e il pallone. Sembra ondeggiare, come ad accarezzare la sfera di cuoio. Quando parte il tiro il piede non tocca terra, resta per un attimo sospeso in aria come a guardare, ad indirizzare la palla verso la rete. È un attimo, ma sembra un tempo interminabile. La palla finisce all’incrocio dei pali, non si vede più l’enorme distesa di ombrelli, ma mani al cielo. Le persone sono felici, si abbracciano, si bagnano, piangono e ridono.

Il 22 giugno del 1986 allo Stadio Azteca di Città del Messico fa caldo. Siamo al minuto cinquantaquattro e Maradona da cinque minuti è diventato La Mano de Dios. La partita è Argentina-Inghilterra, valevole per l’accesso alla semifinale della Coppa del Mondo. Maradona viene servito nella propria metà campo da Héctor Enrique e con la palla incollata al piede salta, come fossero birilli, in ordine, Hoddle, Reid, Sansom, Butcher e Fenwick. Manca solo Shilton, il portiere. Fa fuori anche lui e segna la rete del 2-0. La FIFA, il massimo organismo del calcio mondiale, ha definito e premiato questo come il gol del secolo.

Correva invece l’anno 1970, era il Pelusa di Villa Fiorito e giocava con Les Cebollitas, squadra giovanile dell’Argentinos Juniors, quando lo intervistarono per la prima volta perché si parlava molto bene di questo bambino che con il pallone tra i piedi sapeva fare tutto: «Mis sueños son dos, el primero es jugar un Mundial y el segundo es salir campeón».

Sedici anni dopo quell’auspicio si è avverato: ha giocato il Campionato del Mondo e lo ha vinto.

Le sue squadre sono state tre, non me ne vogliano le altre, il Boca Juniors, il Napoli e, soprattutto, la nazionale del suo Paese, l’Argentina. Ma, isso, è stato di tutti i tifosi di calcio che esistono in questo mondo.

È il più grande di tutti, per distacco, e non morirà mai. Da oggi però, per tutti quelli che amano il calcio nella sua essenza più intima e pura, qualcosa è cambiato. Per sempre.


Il disegno che accompagna l’articolo è  di Virginia Cabras, in arte Alagoon.
Archeologa, illustratrice, madre multitasking e vignettista. È co-fondatatrice, insieme a Riccardo Marinucci e Carlo Casaburi, del Collettivo Sputnink (@Sputnink), pagina quotidiana di satira politica.

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