Giovanni Falcone: «Nemico numero 1 della mafia»

Oscar Buonamano

Nel prologo alla prima edizione di Cose di Cosa Nostra, il libro di Giovanni Falcone in collaborazione con Marcelle Padovani, l’incipit è proprio questo: «Nemico numero 1 della mafia».

Dopo il maxiprocesso la mafia lo aveva messo al centro della guerra contro lo Stato, era diventato l’obiettivo principale da eliminare. Il 23 maggio del 1992, il giorno dell’esplosione a Capaci, aveva 53 anni. A ripensarci oggi che di anni ne avrebbe avuti 82, era davvero un giovane uomo.

Gli ultimi undici anni della sua vita li aveva trascorsi nell’ufficio bunker del Palazzo di Giustizia di Palermo. Una vita dedicata alla lotta alla mafia, trascorsa tra indagini, lettura di deposizioni, ricerca della verità.

«Non sono Robin Hood, né un kamikaze e tantomeno un trappista. Sono semplicemente un servitore dello Stato in terra infidelium», dice di sé stesso a Marcelle Padovani mentre lavorano alla stesura del libro. Venti interviste realizzate tra marzo e giugno del 1991.

Una testimonianza diretta che il giudice rende a una persona di cui si fida. Falcone parla in prima persona. Descrive la mafia in tutte le sue possibili declinazioni. La violenza, i suoi codici, i rapporti con la società siciliana, gli affari e il potere. Una fonte inesauribile di notizie che ancora oggi, a distanza di tanti anni, si rivela preziosa per comprendere il mondo sbagliato e criminale della mafia.

«Devo dire che fin da bambino avevo respirato giorno dopo giorno aria di mafia, violenza, estorsioni, assassinii. C’erano stati poi i grandi processi che si erano conclusi regolarmente con un nulla di fatto. La mia cultura progressista mi faceva inorridire di fronte alla brutalità, agli attentati, alle aggressioni; guardavo a Cosa Nostra come all’idra dalle sette teste: qualcosa di magmatico, di onnipresente e invincibile, responsabile di tutti i mali del mondo…».

Siciliano di Palermo, nato nel quartiere della Kalsa lo stesso di Paolo Borsellino, cresce in un tempo in cui la mafia, ufficialmente, non esiste. C’è, ma non si vede. Falcone al contrario la vede fin da subito, fin dal suo primo incarico e comincia a studiare, incasellare, archiviare.

«Mi sono fatto le ossa a Trapani come sostituto procuratore. La mafia è entrata subito nel raggio dei miei interessi professionali con uno dei grandi processi del dopoguerra. Dieci assassinii e la mafia di Marsala dietro le sbarre. Mi indicarono un armadio pieno di pratiche, dicendomi: “Leggile tutte!”. Era il novembre 1967 e puntuali come un orologio svizzero cominciarono ad arrivarmi cartoline con disegni di bare e di croci. È una cosa che tocca agli esordienti e non ne rimasi colpito più di tanto».

Falcone entra nel mondo della mafia dalla porta principale. Comincia a comprenderne i comportamenti, a conoscere il suo linguaggio e il significato esatto delle parole che utilizza. Attraversa i loro silenzi.

«Un’altra cosa non è generalmente compresa, e cioè l’appellativo “Signore” usato da un mafioso non ha nulla a che vedere con il Monsieur francese, il Sir britannico o il Mister americano. Significa semplicemente che l’interlocutore non ha diritto ad alcun titolo, altrimenti verrebbe chiamato “Zio” o “Don”, se è un personaggio importante dell’organizzazione, oppure “Dottore”, “Commendatore”, “Ingegnere” e così via […] Ricordo che una volta – ero andato in Germania a interrogare un capo mafioso – mi accadde di essere apostrofato: “Signor Falcone…”. Allora tocco a me offendermi. MI alzai e ribattei: “No, un momento, lei è il signor tal dei tali, io sono il giudice Falcone”».

Comprende fin dall’inizio della sua attività lavorativa che la mafia è un fenomeno complesso e che per combatterla con efficacia c’è bisogno di studio, abnegazione. Attenzione continua. Falcone è uno studioso della mafia. Non sottovaluta nulla, approfondisce e verticalizza il suo sapere. Per questa ragione Cose di Cosa Nostra è tante cose insieme. Una riflessione sul fenomeno mafioso, un’accurata descrizione dell’organizzazione della mafia, un saggio di antropologia culturale.

«La cultura della morte non appartiene solamente alla mafia: tutta la Sicilia ne è impregnata. Da noi il Giorno dei morti è festa grande: offriamo dolci che si chiamano teste di morto, fatti di zucchero duro come pietra. Solitudine, pessimismo, morte sono i temi della nostra letteratura, da Pirandello a Sciascia. Quasi fossimo un popolo che ha vissuto troppo e di colpo si sente stanco, spossato, svuotato, come il Don Fabrizio di Tomasi di Lampedusa. Le affinità tra Sicilia e mafia sono innumerevoli e non sono io certamente il primo a farlo notare. Se lo faccio, non è certo per criminalizzare tutto un popolo. Al contrario. Lo faccio per far capire quanto sia difficile la battaglia contro Cosa Nostra: essa richiede non solo una solida specializzazione in materia di criminalità organizzata, ma anche una certa preparazione interdisciplinare».

Oltre alla cultura in cui cresce e prospera la mafia, Falcone descrive, minuziosamente, il rito di iniziazione, la sua organizzazione interna. La sua natura di piovra con tentacoli ovunque. Erano, nel 1991 quando il libro fu pubblicato, argomenti di cui eravamo venuti a conoscenza proprio grazie alle sue indagini e che in questo libro intervista vengono riproposti uno accanto all’altro. Una sequenza ordinata di fatti e accadimenti, riflessioni e considerazioni che rendono preziosissimo questo lavoro di Marcelle Padovani.

«Credo che Cosa Nostra sia coinvolta in tutti gli avvenimenti importanti della vita siciliana, a cominciare dallo sbarco alleato in Sicilia durante la Seconda guerra mondiale e dalla nomina di sindaci mafiosi dopo la Liberazione. Non pretendo di avventurarmi in analisi politiche, ma non mi si vorrà far credere che alcuni gruppi politici non si siano alleati a Cosa Nostra – per un’evidente convergenza d’interessi – nel tentativo di condizionare la nostra democrazia, ancora immatura, eliminando personaggi scomodi per entrambi».

Giovanni Falcone, oggi giustamente e meritatamente omaggiato da tanti, in vita è stato osteggiato da tanti. Vittima di attacchi che provenivano da molti fronti che per interessi convergenti confluivano sulle stesse considerazioni e i medesimi giudizi. Creavano un clima favorevole alla delazione, la più grande e fantasiosa di tutte che l’attentato dell’Addaura fosse stato pensato e realizzato dallo stesso giudice. Aveva contro, praticamente tutti, politica, magistratura, una parte significativa della stampa. Dalla sua parte i colleghi del Pool antimafia di Palermo, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello, tantissimi carabinieri e poliziotti e, soprattutto, cittadini comuni che proprio grazie alla sua battaglia, senza tregua, contro la mafia e il malaffare vedevamo l’affermazione dello stato di diritto e delle istituzioni repubblicane.

Cose di Cosa Nostra finisce con queste parole, «Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere».

Un’affermazione e insieme un grido di allarme, forse, una richiesta di aiuto. Fa rabbia pensare che queste parole non siano state ascoltate. Una rabbia infinita. Giovanni Falcone morì perché fu lasciato solo dallo Stato.

Dal suo sacrificio, da quello di Paolo Borsellino e di tutti gli agenti di polizia che s’immolarono con loro, è nata un’Italia migliore di quella precedente. Un Paese più consapevole e, almeno su questi temi, più coeso. La mafia continua ad esistere così come il malaffare e la cattiva politica, ma l’Italia è un Paese migliore grazie a quegli esempi.

«La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine. Spero solo che la fine della mafia non coincida con la fine dell’uomo», quest’ultima affermazione dobbiamo tenerla bene a mente, dobbiamo ricordarcela sempre.

Per questa ragione il 23 maggio non è una data qualunque e non lo sarà mai. È il giorno in cui la mafia ha ucciso Giovanni Falcone, ma è anche il giorno in cui l’Italia ha reagito e ha cambiato registro nei confronti della mafia. La data in cui siamo rinati come comunità, il giorno in cui abbiamo cominciato a costruire un tempo nuovo e diverso. Migliore.

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