Giuseppe Di Vagno, il Gigante buono

Gianvito Mastroleo
Di Vagno Praver - Pagina 21

Il 25 aprile è la Festa della Liberazione, ricorda la Resistenza ed è l’occasione per rinnovare l’antifascismo: quell’eterno fascismo al quale non ci rassegneremo mai e verso il cui pericolo occorre avere sempre alta guardia.

Nel professare il nostro irriducibile antifascismo non possiamo non ricordare Giuseppe Di Vagno, colui che del fascismo fu la prima vittima, a lungo sottovalutata dalla storiografia nazionale, caduto sotto i colpi di pistola e le bombe a mano dello squadrismo più estremista che utilizzò la violenza per conquistare il potere. Cosa che accadde solo un anno dopo.

Per liberarcene caddero molte altre vittime, fu necessaria una guerra fino all’epopea di popolo che si manifestò con la Resistenza che ci regalò la liberazione dal nazifascismo e la libertà. Ci vollero vent’anni.

Beni irrinunciabili da difendere sempre e dovunque anche nel nome di Giuseppe Di Vagno.

 

Giuseppe Di Vagno, il Gigante buono

Giuseppe Di Vagno fu proditoriamente e volontariamente ucciso il 25 settembre del 1921; Giuseppe Di Vittorio, qualche ora dopo l’omicidio è al suo capezzale e ne raccoglie l’ultimo respiro. Su Puglia Rossa descrive l’ondata d’emozione del popolo di Conversano e della Puglia, le decine di migliaia di compagni, di gente comune che sotto quel diluvio che non riuscì a lavare l’onta del delitto, accorsero al funerale. La città di Conversano, con le sue botteghe e i suoi uffici, si fermò proclamando un Lutto di civiltà.

«Povero il nostro gigantesco Peppino! Egli non si abbatte. Singhiozza, lotta, respira affannosamente e guarda con serenità e con forza la sua sposa e la sua mamma, come per dire: Non piangete, abbiate fede e coraggio!  Vedete, sto lottando, vincerò, vivrò. Non voglio, non posso morire; io! Poi ancora singhiozzi, un gemito lungo, uno sbalzo forte, un respiro strozzato ed Egli non è più. Povero il nostro Gigante buono!  Si è voluto uccidere in te il forte lottatore […] come per seppellire un’Idea, per infrangere una Fede, e non si sono accorti, i miserabili, che la soppressione del tuo corpo ha preparato la tua resurrezione. Tu sei risorto. Eri un uomo ed ora sei un Mito. Tu sei sempre con noi, in noi e nelle nostre battaglie e nelle nostre vittorie».

La ricerca delle cause, di cui nel recente si è occupato Cesare Preti, è già delineata nella dichiarazione del deputato socialista Adelchi Baratono che nel commemorarlo a nome del gruppo del Partito Socialista Italiano, il 24 novembre 1921 nell’Aula della Camera dei Deputati, si rivolge ai parlamentari neo-fascisti con queste parole: «L’omicidio Di Vagno è un fatto di gravità inaudita […] È comprensibile anche […] che un giorno alla vigilia della guerra, un fanatico illuso passando davanti alla invetriata di un restaurant, dietro la quale è chinata la fronte di Giovanni Jaurès pensosa di impedire il conflitto, voglia fermare quel pensiero col piombo della sua rivoltella. Ma (questo) omicidio lungamente preparato, il mandato di omicidio premeditato, elaborato, portato a termine freddamente, in un regime che si chiama democrazia e di ordine contro un rappresentante del Paese è […] cosa di cui dobbiamo vergognarci in nome di questa Italia che tutti i giorni […] gettate in un abisso di ignominia».

Ma già il quotidiano Il Paese, il successivo 27 settembre 1921, a soli due giorni dai fatti scrive: «Il delitto è stato premeditato ed eseguito dai fascisti. L’on.le Caradonna è il maggiore responsabile della situazione creatasi laggiù». Come fa l’Avanti!, il giornale dei socialisti lo stesso giorno.

Nato in una famiglia di proprietari di quella poca terra sufficiente a farla sopravvivere bene, Giuseppe Di Vagno fu avviato agli studi nel ginnasio-liceo del Seminario di Conversano; e poi a Roma all’Università La Sapienza, dove fu allievo di Enrico Ferri, maestro di diritto penale e socialista.

Quel giovane coltivava interesse per le questioni sociali, assieme alla capacità d’interpretare la storia e cogliere il significato degli avvenimenti nazionali ed internazionali «[…] nei suoi quadri d’insieme, nelle sintesi di larghi periodi storici – scrive Alfredo Violante – che rispecchiano tappe nel pensiero umano e nel progresso delle genti».

Schierarsi con il movimento socialista, dunque, è l’approdo naturale di un percorso culturale e politico e di un vissuto a contatto con lo sfruttamento bracciantile.

Nel 1912 Giuseppe Di Vagno dalla vita attiva di Roma fra aule e biblioteche torna in Puglia: con un sogno non di dominio, ma di rivolta alle vecchie cose e ai vecchi uomini, di rinnovamento morale e politico che non conosce tentennamenti e non indietreggia.

È portatore di idee rivoluzionarie: emancipazione e uguaglianza.

In breve diviene uno dei maggiori sostenitori delle lotte contadine: dirige scioperi, organizza l’occupazione dei latifondi, promuove la difesa gratuita dei braccianti trascinati nei tribunali.

Lo fa in ogni parte di Puglia: nel 1920, affiancato dal suo maestro Enrico Ferri e dall’esordiente suo amico Giuseppe Papalia, nel processo per l’eccidio presso la masseria Girardi di Marzagaglia a Gioia del Colle difende contadini e braccianti, sei dei quali sono colpiti a morte.

Di Vagno misura direttamente la contraddizione in cui vive il movimento dei lavoratori in terra di Puglia fra lo sviluppo delle organizzazioni operaie e contadine e l’incalzante carica della reazione agraria.

Nei giorni di sosta a Conversano il giovane Di Vagno rovista tra le carte del comune, elabora il censimento degli stabili adibiti ad abitazione e scopre famiglie di sette-otto persone in una sola stanza senza servizi, o interi nuclei familiari in un unico locale insieme agli animali domestici. Mentre i borghesi disponevano di interi palazzi, in gran parte disabitati.

Si rafforza così la convinzione che occorreva rovesciare un sistema di potere dove poche famiglie si alternavano al governo della municipalità e se ne servivano per accrescere ricchezze a danno dei diseredati.

Nel 1914, in occasione del rinnovo dell’amministrazione comunale, grida nei comizi «sono ladri del pubblico denaro» citando dati e fatti inoppugnabili; con la sua lista caccia gli agrari e conquista il suo comune; assicura alla città un’amministrazione socialista, a capo della quale insedia un sindaco discernente dalla nobile famiglia degli Accolti Gil; con largo suffragio lui stesso è eletto al Consiglio provinciale di Bari dove rimarrà fino al 1920; inaugura di lì a pochi mesi la sezione socialista, iniziando così la sua milizia attiva.

Con il successo elettorale iniziano anche le minacce e a mano armata, persino durante le sedute del Consiglio provinciale, dove sedeva accanto a Gaetano Salvemini, Giovanni Colella, Gennaro Venisti, al pedagogista cattolico Giovanni Modugno.

Contemporaneamente alla devastante guerra che distrugge e insanguina l’Europa cova il germe della violenza politica: Di Vagno si schiera contro e sarà espulso dall’Aula del Consiglio provinciale per non essersi associato al grido del presidente «Viva la guerra». È processato e internato, inviato al confino, prima in Toscana poi in Sardegna.

A fronte del sempre più diffuso patriottismo parolaio Di Vagno costituisce l’Ente provinciale dei consumi, per dare sostegno ai profughi.

Avendo Gaetano Salvemini come amico e ispiratore si schiera contro la politica delle tariffe doganali, dietro le quali s’annida il protezionismo dell’industria del nord, i cui interessi si saldano con quelli della grande proprietà terriera. E poi, contro tutto quello che frena lo sviluppo del Mezzogiorno: la burocrazia delle amministrazioni locali, l’assenteismo della classe dirigente, l’inerzia dei politici, la mancanza di istruzione diffusa al cui sostegno fonda un ente di educazione popolare; si batte per il completamento dell’Acquedotto pugliese. Scrive sui periodici socialisti, fra cui Puglia Rossa.

La sua concezione politica rimane limpida anche quando nel 1919 il massimalismo sfigura la prospettiva del partito socialista: benché affascinato dal mito rivoluzionario lui resta socialista, seguace di Filippo Turati e convinto rinnovatore. Con Turati, è tra i precursori del riformismo moderno.

Accusato d’aver sottoscritto il Manifesto di Salvemini nel 1919 subisce l’espulsione dal partito a seguito di un processo sommario; pur riammesso solo dopo sei mesi non è candidato al Parlamento.

Due anni dopo, il 15 maggio del 1921, è eletto alla Camera dei Deputati nel collegio Bari-Foggia, con circa 75.000 voti; è il secondo degli eletti dopo Arturo Vella e precede Giuseppe Di Vittorio, che è in carcere.

La violenza incalza. Le squadracce nere, coperte ed aiutate da chi dovrebbe tutelare l’ordine, colpiscono ovunque, indisturbate. Si diffuse, infatti, anche a Conversano, la sua città, il clima d’intimidazione teso ad isolarlo e neutralizzarlo. Non accadde a caso che, nonostante il diffuso successo personale, nella sua città natale non andò oltre i ventidue voti di preferenza.

Di Vagno è consapevole che la sua condanna è decretata, ma anziché ritrarsi, dà sfogo a tutta la sua passione umanitaria, consacrandosi con intransigenza alla causa della plebe e dei braccianti meridionali, vissuta come un’ineluttabile questione morale.

Subisce diversi attentati: a Noicattaro, a Conversano e a Noci; sfugge ad un agguato a Casamassima il 19 settembre, solo una settimana prima dell’attento finale.

In treno da Roma, si reca al tragico appuntamento del 24 settembre del 1921 a Mola di Bari per inaugurare la sezione socialista.

Un compagno lo raggiunge, lo avverte e lo invita a tornare indietro. Di Vagno prosegue.

Prima d’iniziare il comizio, presago, legge un pensiero di Abramo Lincon: «La probabilità che noi possiamo cadere nella lotta non deve scoraggiarci dal sostenere una causa che noi crediamo giusta».

Solo un’ora dopo, colpito a morte dai colpi di pistola confusi nel fumo nero di due bombe a mano esplose da un manipolo di mazzieri, resterà sul selciato.

Spirerà l’indomani mattina, nelle braccia della madre e della sua giovane sposa che era in attesa di dargli quel figlio, che non ha mai conosciuto il padre. Aveva 32 anni, era nel fiore della giovinezza, l’azione quotidiana accompagna le grandi idee che andava maturando.

Il processo ai suoi assassini è celebrato prima a Trani nel 1922 e poi, 26 anni più tardi, nel 1947 a fascismo battuto, presso la Corte di Assise di Potenza.

Gli assassini restano impuniti due volte.

La prima volta per la complicità del regime che introduce l’esimente dell’interesse nazionale per le bravate delle squadre fasciste; la seconda volta la pacificazione ad ogni costo suggestionerà la Corte di Cassazione fino a tradire la verità e ritenere preterintenzionale un delitto che invece fu volontario, come ricerche storiche recenti hanno determinato senz’appello, e in ogni caso non avrebbe potuto essere amnistiato.

La sede di Bari del Comitato per le Onoranze e per il Monumento a Giuseppe Di Vagno – subito costituito – fu saccheggiata, come denuncia Giacomo Matteotti nel puntiglioso e dettagliato studio pubblicato nel 1923, «Un anno di dominazione fascista», nel quale descrive con puntigliosa analiticità gli atti di repressione e di violenza del regime consumati a Roma, nelle grandi città, nei più sperduti comuni del Mezzogiorno d’Italia.

Giuseppe Di Vagno, uomo d’azione, amava la piazza e sapeva parlare con i contadini ed i braccianti della Puglia: «Non vi è piazza della nostra provincia – dirà Eugenio Laricchiuta – in cui non abbia superbamente echeggiato la sua voce; adoratore delle folle nel loro dinamismo sociale, era soltanto lui che poteva soddisfare le nostre masse contadine».

Nel 1921 Alfredo Violante, suo primo biografo, lo definirà: «Un cervello borghese in un’anima socialista»; mentre Gaetano Arfè ne colloca la figura nella storia del movimento socialista italiano come «Riformista turatiano» e del delitto precisa che «[…] maturò nell’azione politica di Mussolini, intessuta di delitti, scientificamente qualificabili come tali, contro l’Italia, contro l’umanità […] e nessuna revisione può cancellare il fatto che il fascismo teorizzò e praticò la violenza quale strumento di lotta politica: Di Vagno morì di pistola, Matteotti e i fratelli Rosselli di  pugnale, Giovanni Amendola e, con lui, il prete don Minzoni di manganello […]; il fascismo soppresse con appropriate leggi tutte le libertà […] e dette vita ad una repubblica fantasma che armò i suoi uomini, italiani contro italiani».

Questo stesso clima si respirerà nei successivi tre anni e con drammatica continuità condurrà all’altro sciagurato delitto di regime, quello di Giacomo Matteotti nel giugno 1924. L’uso della violenza come mezzo di lotta politica si spinge fino all’assassinio di membri del Parlamento, come mai era accaduto prima.

Di Vagno, l’«oscuro Matteotti delle Puglie», come lo ricorderà Leo Valiani, fu la prima vittima del fascismo, purtroppo, non sarà l’ultimo.

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