Il trasloco di Einstein

Pietro Greco

«Questo è un avvenimento grande, come lo sarebbe il trasferimento del Vaticano da Roma nel nuovo mondo. Il papa della fisica trasloca, gli Stati Uniti diventeranno il centro della scienza».

Non impiegò molto il francese Paul Langevin, compagno di Marie Curie, a comprendere il senso profondo di quanto accaduto sul finire del 1932, poche settimane prima che Adolf Hitler prendesse il potere in Germania. Albert Einstein, il fisico di gran lunga più famoso di quel tempo e forse di ogni tempo, aveva lasciato già in piena estate la Germania: «Voltati – aveva detto alla moglie mentre chiudeva casa a Berlino Dahlem – perché non la vedrai mai più».

Einstein aveva passato alcuni mesi in Europa e poi in dicembre aveva deciso di accettare l’invito dell’Istituto di Studi Avanzati di Princeton e di trasferirsi definitivamente negli Stati Uniti. L’evento non passò inosservato né in Germania in procinto di nazificarsi né nel resto d’Europa. Perdere colui che già allora era considerato il più grande fisico di ogni tempo non è cosa che passi inosservata. Ma il lucidissimo Paul Langevin disse qualcosa di più: quel viaggio senza ritorno dall’Europa verso gli Stati Uniti significava che l’asse scientifico del mondo si stava spostando, dal Vecchio al Nuovo Mondo.

Se vogliamo capire cosa ciò significasse (e significa tuttora) non c’è nulla di meglio che richiamare alla mente le parole – intrise di un commendevole sciovinismo, ma assolutamente realiste – pronunciate verso la fine del Settecento da uno dei più grandi esploratori di ogni epoca, un altro francese: Louis-Antoine de Bougainville: «Tutte le ricchezze del globo appartengono all’Europa, resa dai suoi progressi scientifici sovrana delle altre parti del mondo». Lasciamo perdere poi la conclusione dell’esploratore colonialista: «Andiamo quindi a raccogliere questa messe». Prendiamo in considerazione il succo della sua frase: l’Europa è stata resa sovrana delle altre parti del globo in virtù di una sola cosa: i suoi progressi scientifici.

Gli Europei seguirono l’indicazione di Bougainville e nei decenni successivi effettivamente andarono (continuarono ad andare) a raccogliere la messe in giro per il mondo costruendo immensi imperi coloniali. Ma alla fonte della supremazia – ahimè, anche militare – del Vecchio Continente c’era lei: la rivoluzione scientifica del Seicento.

Per più di tre secoli la scienza è stata un monopolio dell’Europa: il monopolio su cui l’Europa ha costruito le sue fortune, anche quelle meno commendevoli. Una riprova? Prima che Einstein andasse via, tra il 1901 e il 1933, a Stoccolma vengono assegnati 102 premi Nobel scientifici. Di questi 93 (il 91%) sono assegnati a scienziati europei e solo 9 a ricercatori di altri continenti. Sono numeri che indicano il ruolo egemonico, quasi monopolistico, che, ancora in questa prima fase del XX secolo, l’Europa ha in ambito scientifico.

Il paese che in assoluto ne ha ricevuti più, di premi, è la Germania: 32 (il 31% del totale). Mentre, tra i paesi extra-europei spiccano gli Stati Uniti d’America, con 6 premiati: meno di un quinto della Germania.

Nei successivi trentatré anni, tra il 1934 e il 1966, Stoccolma assegna complessivamente 148 premi in fisica, chimica e medicina. All’Europa ne vanno 79, pari al 53% del totale. Di questi solo 15 sono tedeschi (il 10% del totale), mentre gli Stati Uniti, con 64 premi (pari al 43% del totale), sono primi nella classifica per paese. La bilancia dell’egemonia scientifica segnala che in questa seconda fase, rispetto ai primi trentatré anni del XX secolo, l’Europa ha perso il 42% del suo peso scientifico e la Germania, addirittura, il 68%.

Aveva visto bene, dunque, Paul Langevin. Il trasloco di Einstein da Berlino a Princeton ha rappresentato davvero lo spostamento dell’asse scientifico del mondo. L’Europa ha davvero perduto il suo monopolio a vantaggio della leadership americana.

Albert Einstein non era stato un analista politico meno lucido di Langevin. Era andato via dall’Europa perché aveva capito in anticipo che i nazisti avrebbero avuto la meglio in Germania e che, di conseguenza, avrebbero portato il continente al disastro.

Quel trasferimento è stato, per dirla con Jean Medawar e David Pyke, il miglior regalo di Hitler agli Stati Uniti d’America. La tragica vittoria, sia pure per pochi anni, del nazionalismo nazista e fascista, ha rotto l’antica alleanza tra la scienza e l’Europa. L’asse scientifico del mondo si è spostato altrove. Il Vecchio Continente ha perduto la sua egemonia sul mondo nella produzione di nuova conoscenza. E, di conseguenza, ha perduto la sua egemonia nel mondo.

Se ne scriviamo è perché noi europei non ne abbiamo ancora piena consapevolezza. La leadership scientifica ora si sta spostando (si è spostata) tra le due sponde settentrionali del Pacifico. Ed è questo il motivo per cui il nostro continente non riesce non solo ad avere un ruolo egemonico, ma neanche a competere alla pari con le vecchie e le nuove potenze scientifiche planetaria.

Questa condizione di relativa marginalità non è irreversibile. Possiamo avere di nuovo un ruolo di primo piano nella scienza e, quindi, nell’economia. Ma dobbiamo riscoprire quel valore della scienza che era così chiaro già un quarto di millennio fa a Louis-Antoine de Bougainville.


Per chi volesse approfondire la vicenda narrata in questo articolo  può farlo nei volumi 4 e 5 della serie La scienza e l’Europa di Pietro Greco.  Il primo Novecento e Dal secondo dopoguerra a oggi entrambi pubblicati dalla casa editrice l’Asino d’oro.

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