La bella Italia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Trent’anni non passati invano

Oscar Buonamano

Trent’anni fa, a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro, furono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Furono uccisi dalla mafia siciliana, a Palermo. Le date sono scolpite nella memoria collettiva dell’Italia perbene: 23 maggio e 19 luglio, 1992.

Il pomeriggio del 23 maggio del 1992 ero a Pescara, a casa di amici, da solo. Me lo ricordo come fosse ieri. Poco dopo le 18:00 un’edizione straordinaria del telegiornale annuncia l’attentato di Capaci. Ricordo con chiarezza che non fui sorpreso. Addolorato e affranto, ma non sorpreso.

Giovanni Falcone era diventato per me, una persona di famiglia. Uno a cui volevo bene e voglio bene. Per questa ragione sapevo molto di lui, della sua vita professionale, della sua lotta contro i mulini a vento.

Ricordo che mentre ascoltavo la notizia ebbi come uno sdoppiamento, seguivo gli aggiornamenti e contemporaneamente rivedevo nella mia mente immagini, episodi, accadimenti che riguardavano la sua vita professionale. Rivedevo nella mia mente tutti i tentativi di delegittimarlo che puntualmente si erano ripetuti nel tempo.

Pensai alla puntata speciale del Maurizio Costanzo Show andata in onda qualche mese prima, il 27 settembre 1991. La famosa puntata in cui l’avvocato Alfredo Galasso gli disse: «Secondo me farebbe bene ad andarsene il più presto possibile dai palazzi ministeriali perché, mi pare, che l’aria non gli fa bene. Non gli fa bene proprio».

Giovanni Falcone, con un sorriso amaro, si voltò verso l’interlocutore che era alle sue spalle e gli rispose: «Questa è una tua opinione, soggettiva. Questo significa mancanza di senso dello Stato».

Un episodio tra tanti.

Giovanni Falcone, in vita, fu avversato da tanti. Da molti, purtroppo. Nonostante tutto riuscì, assieme a un manipolo di persone motivate e professionalmente molto preparate con Paolo Borsellini in testa a tutti, a portare Cosa Nostra alla sbarra e a vincere, contro la feccia del nostro Paese, nel processo più importante che si sia fatto in Italia: il Maxiprocesso.

Processo che si concluse con 346 condannati e 114 assolti. 19 ergastoli e 2665 anni di reclusione.

In una bella intervista di questi giorni Francesco Lo Voi, procuratore di Roma, nel 1992 pubblico ministero a Palermo (fu lui a portare Paolo Borsellino in ospedale da Giovanni Falcone subito dopo l’attentato), ha dato una definizione di Falcone che coglie un punto centrale della sua attività di magistrato, «La magistratura italiana non era pronta nemmeno culturalmente ad accettare un visionario come lui. Che rappresentava l’emblema della ripresa e della resilienza, oggi tanto invocate; da ogni sconfitta riusciva a riprendersi per lavorare più e meglio di prima».

Il giudice Falcone è stato un visionario e per questo un innovatore, un uomo e un professionista che ha portato in alto il nome dell’Italia. Un uomo colto, profondo conoscitore della sua terra e delle cose degli uomini.

In quello che tutti considerano il suo testamento spirituale, il libro intervista con Marcelle Padovani, Cose di Cosa Nostra, dice: «La cultura della morte non appartiene solamente alla mafia: tutta la Sicilia ne è impregnata. Da noi il giorno dei morti è festa grande: offriamo dolci che si chiamano teste di morto, fatti di zucchero duro come pietra. Solitudine, pessimismo, morte sono i temi della nostra letteratura, da Pirandello a Sciascia. Quasi fossimo un popolo che ha vissuto troppo e di colpo si sente stanco, spossato, svuotato, come il Don Fabrizio di Tomasi di Lampedusa. Le affinità tra Sicilia e mafia sono innumerevoli e non sono io certamente il primo a farlo notare. Se lo faccio, non è certo per criminalizzare tutto un popolo. Al contrario, lo faccio per far capire quanto sia difficile la battaglia contro Cosa Nostra: essa richiede non solo una solida specializzazione in materia di criminalità organizzata, ma anche una certa preparazione interdisciplinare».

Visionario e innovatore. Parlava, trent’anni fa, di preparazione interdisciplinare.

Quel libro, finisce così: «Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere».

Aveva ragione, purtroppo, anche in questo caso.

Non poteva sapere però che la sua morte, come quella di Paolo Borsellino e di tantissimi altri fedeli servitori dello Stato sia tra le forze di polizia sia tra i magistrati, ma soprattutto la sua vita, il suo modo di essere e di lavorare, avrebbero innescato nuova linfa vitale in molti italiani.

Non poteva sapere che oltre a vincere il Maxiprocesso aveva attraversato il cuore e la mente di molti italiani.

Non poteva sapere che con il suo esempio ci stava rendendo migliori.

Non poteva sapere che gli uomini di quello Stato lo avevano lasciato solo, ma che altri uomini, la bella Italia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sarebbe stata per sempre con loro.

Trent’anni non sono passati invano, siamo cresciuti e siamo meglio di com’eravamo prima. Siamo più consapevoli e custodiremo per sempre la memoria di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e tutti gli uomini e le donne che sono morti lottando per liberare il nostro Paese dalla mafia e dalle connivenze di quest’ultima con uomini dello Stato.

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