La pochezza della televisione italiana nel centenario del Pci

Giorgio Simonelli

Il centenario della nascita del Partito comunista italiano è stato ampiamente ricordato dai media, per la gioia di coloro che ne hanno un ricordo amorevole e per il dispetto di coloro che ne vorrebbero una damnatio memoriae o il ritratto di un mostro.

Molto attivo il comparto letterario con l’uscita di un numero notevole di volumi. Vivace anche l’apporto dei giornali che hanno rievocato la lunga storia, analizzando in dettaglio il momento cruciale della scissione di Livorno, riproposto documenti. Solo la pattuglia dei quotidiani di destra ha rinunciato a questo lavoro di rilettura, preferendo la via dei giudizi sommari riassunti da un titolo esemplare «cento anni sempre dalla parte sbagliata».

Sarebbe lecito chiedere se il Pci era dalla parte sbagliata anche quando si organizzava clandestinamente contro il fascismo, quando dava il suo apporto fondamentale alla Resistenza, quando combatteva la mafia, quando faceva argine al terrorismo delle BR o quando contribuiva alla scrittura della Costituzione, che reca in calce come prima firma quella di Umberto Terracini.

Domande lecite ma credo inutili se rivolte a chi sfoglia le pagine della storia con l’accetta.

Meglio passare oltre, vedendo altri aspetti della rievocazione. Quello della televisione, per esempio, che resta un punto di riferimento centrale nella vita nazionale. Ebbene, la tv non ha brillato. Qualche servizio nei tg, un paio di programmi monografici. Uno di Rai storia che aveva il merito di riproporre vecchie interviste a protagonisti della storia del partito da tempo scomparsi (Umberto Terracini, Camilla Ravera, Battista Santhià) ma che non si discostava dalle forme tradizionali della divulgazione storica.

Un secondo assai atteso e collocato in evidenza nel palinsesto di Rai 3, scritto e condotto da Ezio Mauro. Forse ispirato dallo storytellig che Buffa applica alle vicende dello sport, Mauro fa una scelta drammaturgicamente potente. Colloca il suo racconto nei luoghi in cui cento anni fa avvennero i fatti: il teatro Goldoni di Livorno e, nel finale, il teatro San Marco al quale marciarono i dissidenti comunisti.

E sono i luoghi, la disposizione dei personaggi nei vari spazi del teatro, i palchi, le prime file a fare la storia. Poi affida il tema alle interviste ai politici che hanno vissuto la storia più recente della divisione della sinistra, della sua dannazione: Bertinotti, Occhetto, D’Alema, Intini, Martelli. Ed è tutto un discutere di linee politiche, di responsabilità, di pressioni moscovite, di ragioni e di torti.

Ma il Pci non è stato solo questo in Italia dopo la fase della clandestinità dal dopoguerra fono agli anni Ottanta. In Italia è stato quella cosa, come direbbe Nanni Moretti, che aveva affascinato Jean Paul Sartre, un mondo, un popolo.

Una cosa che si impastava con la vita di milioni di persone, che segnava il loro destino (come racconta Viola Ardone) e i loro sentimenti (Mario Maria Mario); che organizzava il loro tempo libero (le mitiche feste dell’Unità), i loro viaggi (solo con il partito si poteva visitare la Russia), che determinava i loro gusti decidendo quali libri o film si dovevano leggere o vedere e quali tralasciare o boicottare, che giudicava i loro comportamenti anche nella vita privata (la famosa morale sessuale che ha prodotto tante polemiche sull’ipocrisia).

Una cosa che, al di là delle dottrine sulla classe, non riguardava solo il proletariato ma diverse élites: insieme con i politici, gli studiosi, gli accademici, gli artisti, il mondo dello spettacolo. Una volta mi è capitato di leggere un’intervista a Giovanna Ralli, la bella e brava attrice di tanto cinema italiano dagli anni Cinquanta in poi: rievocava quell’ambiente in cui si sentiva spaesata, lei giovane inesperta e un po’ frivola sempre circondata da amici e colleghi impegnatissimi comunisti sempre alle prese con discussioni politiche.

Ecco tutto questo mondo nella sua varietà e nella sua inattuale originalità poteva essere oggetto di una rilettura televisiva che muovesse dalla concretezza delle figure, dei simboli, dei feticci, come fecero certe storiche serate dedicate a Garibaldi e Manzoni. Purtroppo per questa possibilità c’è un insuperabile ostacolo: chi sapeva fare queste letture tanto piacevoli quanto profonde non c’è più. Beniamino Placido se n’è andato da tempo e non ha lasciato nessuno che sappia come lui spiegarci e fare la televisione.

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