Le due piazze della protesta anti-lockdown

Sergio Baraldi

Ci sono state due piazze della protesta contro il semi-lockdown deciso dal governo. Due piazze che andrebbero interpretate come un duplice segnale d’allarme.

Il primo è politico: le manifestazioni mostrano la trasformazione che ha attraverso in questi anni la destra radicale. Sempre più presente sulla scena pubblica, la destra estrema non si maschera più, mobilita anche frange violente, che si sarebbero rese responsabili degli scontri di Torino, Milano, Napoli, Roma.

Il secondo segnale è sociale: in modo autonomo dai gruppi di destra, esponenti di alcuni ceti sociali hanno deciso di manifestare pacificamente contro le misure del governo, sostenuti dalla destra istituzionale, e hanno rivelato un malessere sociale più ampio del previsto.

Tra la prima e la seconda ondata, quindi, lo scenario sociale è mutato. A marzo il Paese ha reagito al lockdown totale in modo solidale e unitario. Il simbolo è stato il canto dell’inno di Mameli sui balconi. A ottobre, all’inizio della seconda ondata, la società è apparsa subito divisa e pervasa dalla frustrazione. Il simbolo sono diventate le piazze e gli scontri.

La prima piazza: la trasformazione della destra radicale
La trasformazione della destra radicale non riguarda solo l’Italia, è un fenomeno che investe tutto l’Occidente. Esclusa per decenni dai governi, isolata politicamente, la destra sembra avere conosciuto una profonda trasformazione in Europa. Il movimento oggi utilizza le debolezze delle democrazie liberali, si avvale del pluralismo e dei diritti garantiti alle minoranze per conquistare uno spazio politico più ampio.

Se fino a qualche tempo fa, la destra estrema preferiva appoggiare partiti e candidati che riteneva vicini alla propria identità (in Italia da ultimo Salvini e la Lega), adesso con sempre maggiore frequenza compare in prima persona e organizza propri eventi. Agisce cioè come un nuovo partito reazionario che si ritiene ormai sdoganato. Sospettati di essere vicini ai gruppi fascisti, in realtà questi movimenti non sembrano una mera riproduzione del passato, anche se alcuni collegamenti soppravvivono. Hanno assunto il profilo di una forza politica diversa. L’avere utilizzato la categoria del populismo per definirli, può aver tratto in inganno sulla natura di queste formazioni.

Ci sono tratti che li accomunano ai movimenti populisti, ma l’ideologia è differente: c’è la retorica del popolo, ma il popolo che evocano è concepito sulla base del nazionalismo e dell’etnocentrismo uniti all’ostilità verso gli immigrati. C’è contiguità con il populismo, ma non sembra esserci identità. È la tesi, per esempio, di un articolo di prossima pubblicazione del professore Alfio Mastropaolo, autore tra l’altro di un importante libro sulla Antipolitica (Ancora del Mediterraneo, 2000).

Un’altra novità consiste nel fatto che la nuova destra radicale non si dichiara antidemocratica. Al contrario, in quasi tutti i paesi ha imparato a utilizzare la democrazia rappresentativa, il pluralismo costituzionale, a criticare il sistema senza rifiutarlo. Del resto, è sufficiente guardare all’esperienza degli Usa: dietro la presidenza di Trump si intravvede la sintonia con alcuni movimenti di destra estrema.

Il dato di fondo che sembra distinguerli non è solo l’assetto valoriale (nazione e etnia) ma anche la concezione politica della società: al centro c’è il tema dell’ordine e di conseguenza della sicurezza. Per loro l’ordine deve essere difeso in modo intransigente: chi lo viola deve essere punito. La severità viene esercitata soprattutto contro alcune figure di devianti (immigrati, zingari etc.). Un altro elemento importante è la visione della famiglia e del ruolo delle donne, che rientra all’interno di uno schema conservatore. Se le donne devono tornare in posizione subalterna (l’aborto è condannato), la destra restaura la tradizionale concezione dell’uomo e ne valorizza la virilità. L’agenda della destra radicale, quindi, si distanzia dal fascismo ma senza compiere abiure, si connette ad alcuni valori storici del conservatorismo, inserisce nuove idee e nuove strategie comunicative e politiche. La posizione che assume non sembra tanto quella di un classico partito anti-sistema, quanto di un partito dentro-fuori: vuole restare dentro il sistema per poi imprimergli una torsione autoritaria e conservatrice, che può allontanarlo dalla concezione democratica liberale. La Polonia e l’Ungheria possono fornire utili indicazioni sul loro progetto.

Il punto è che questa destra ha ottenuto dei successi elettorali e riesce a influenzare le opinioni pubbliche. I suoi temi condizionano le agende pubbliche occidentali. La destra radicale sembra assumere la forma del partito, dato che il modello organizzativo ricorda il partito tradizionale di massa. Si capisce tuttavia che hanno appreso anche dall’esperienza dei movimenti sociali di sinistra e sono riusciti a insediarsi in strati sociali che la sinistra non riesce o non può rappresentare (periferie, segmenti di ceti popolari, giovani emarginati delle periferie). Con sempre maggiore frequenza, queste formazioni partecipano alle elezioni (anche amministrative) con l’obiettivo non solo di irrobustire la propria organizzazione e accrescere i follower, ma puntano a incidere sull’assetto istituzionale e a influenzare la discussione pubblica. Alla fine di un lungo processo di normalizzazione, la destra radicale si propone come luogo di aggregazione di quegli elettori stanchi dei partiti tradizionali, preoccupati dell’immigrazione. Elettori che chiedono sicurezza, che si sentono sconfitti dalla globalizzazione e minacciati da una cultura che ha trasformato il sistema di valori della modernità. Una tesi rilanciata da Ronald Inglehart e Pippa Norris in Cultural backlash (New York 2019). Al fondo questa destra sembra percepirsi come reazione al cambiamento, al disorientamento che ha innescato, alle ansie sociali. E le nazioni occidentali non sembrano più abituate a ragionare in termini di reazione.

Non è quindi un caso che la destra radicale abbia organizzato le manifestazioni contro il lockdown. È chiaro il tentativo di rivendicare la rappresentanza del malessere sociale che circola nel paese. Il loro gioco sembra voler attirare il governo nella trappola di una contrapposizione tra paese reale (la piazza) e paese legale (l’istituzione). Da un lato offrono uno sbocco al malessere di settori sociali che si sentono penalizzati, dall’altra propongono un’agenda alternativa, molto trumpiana, che sottovaluta il pericolo del virus. Scendendo in piazza, la destra radicale tenta di monopolizzare il no al lockdown, quasi in competizione con la destra maistream. Infatti nelle altre piazze della protesta la destra istituzionale si è subito presentata con sindaci e presidenti di regione.

Gli incidenti, però, mostrano che in Italia quando la destra estrema si muove catalizza gruppi neofascisti e talvolta violenti che alla fine ne danneggiano l’operazione politica. I difensori dell’ordine finiscono per suscitare il disordine, gli scontri impediscono di trovare nuovi alleati, per esempio nel ceto medio preoccupato. Ma la loro ambizione sembrerebbe quella di assumere progressivamente il ruolo di forza egemonica di un campo politico, sia erodendo la destra mainstream (quella conservatrice e quella più liberale) sia rimettendo in discussione la politica dell’emergenza del governo. Ma gli scontri ne ridimensionano l’impatto.

La protesta è un modo per influenzare le élite politiche, per incidere sul dibattito pubblico, ma soprattutto per attuare una pressione politica a favore di chi non ha canali di accesso ai decisori. La destra estrema vuole essere quel canale. Resta da vedere se la maggioranza ha colto il segnale e se saprà adottare una risposta efficace.

La seconda piazza: il possibile contagio della sfiducia
Nella seconda piazza della protesta, invece, si sono visti cittadini che si percepiscono come i danneggiati dal semi-lockdown. Ma questa piazza è diversa dalla prima. Intanto per la composizione sociale: sono apparse in scena schegge di un ceto medio tradizionale (autonomi, artigiani e negozianti, partite Iva). Non sembravano presenti né il nuovo ceto medio, impiegato soprattutto nei servizi, né i lavoratori delle imprese. Si è trattato della prova tecnica di un movimento ancora fluido e indefinito. Che sembra aver individuato l’avversario nel governo più che nel virus. Per cercare di capire il significato della protesta dobbiamo provare a definirne l’identità collettiva, per quanto sfuggente.

Sembra unirli la convinzione di essere i perdenti morali dell’epidemia. Pensano probabilmente che si sia perso il controllo del contagio sia sul piano economico sia su quello sanitario. Sul piano economico perché le misure del governo rischiano di infliggere un duro colpo a tante piccole attività e imprese a gestione familiare, che a volte hanno affrontato degli investimenti per mettersi a norma per la sicurezza igienica. Sul piano sanitario perché nel Paese si è diffusa la convinzione che, tra la prima e la seconda ondata, lo Stato abbia accumulato ritardi, non abbia programmato interventi adeguati. E che il prezzo della scarsa efficacia dello Stato ricade su di loro.

I taxi schierati in bell’ordine nella piazza di Torino, raccontano una storia diversa da quella del governo. I manifestanti sembrano condividere una serie di credenze, che implicano una ridefinizione e interpretazione della realtà che stride con quella della maggioranza. Il premier Conte, per esempio, ha dato l’impressione di essersi cullato nell’idea di un modello Italia che ha funzionato e si è tardato nel preparare il Paese ai nuovi rischi dell’autunno.

La piazza della protesta cioè ha elaborato una visione della situazione che non soltanto è confliggente con quella di Palazzo Chigi, ma individua chi è escluso e di conseguenza si oppone. In un contesto così incerto, ha determinato con esattezza il suo target. La destra istituzionale tenta anch’essa di rivendicare la rappresentanza dello scontento, ma sembra il tentativo contraddittorio di uscire da una condizione di debolezza strategica. Un momento protesta, un altro prova (senza crederci troppo) a elaborare un piano. Ma finora la proposta di una valida alternativa per interrompere la catena del contagio non è stata udita. E il suo precipitarsi in quelle piazze rischia di confinare la destra mainstream nel ruolo di protesta senza proposta, indebolendo il suo profilo di possibile schieramento di governo.

Il dubbio che l’emergenza non sia equa
Non è meno delicata la posizione della maggioranza. Alcuni teorici delle scienze cognitive (Ron Eyerman, Andrew Jamison, Social movments: a cognitive approach, University Park, Pennsylvania, 1991), parlano per i movimenti politici di allineamento degli schemi interpretativi. A un certo punto si può avviare un processo di convergenza tra la visione di un movimento, per quanto informale, e gli schemi interpretativi diffusi nella società. Se questa convergenza avviene, chi protesta riesce a presentare il proprio racconto come una risposta possibile e adeguata a una condizione percepita come ingiusta da molte persone. È il rischio che la maggioranza sta correndo. Il malcontento sembra più ampio di quelle piazze.

Gli italiani dopo essersi illusi di avere addomesticato il virus, hanno scoperto che ritorna l’emergenza. Temono che i sacrifici patiti non bastino. E il sentire comune sembra un impasto di frustrazione e rabbia, come ha riconosciuto Conte. Tutte emozioni che portano verso la sfiducia. Occorrerebbe una diversa strategia della fiducia. Conte ci sta provando appoggiandosi alle misure concrete del decreto. Ma per ora manca una narrazione convincente. Il governo ha anche commesso alcuni errori. Solo quando sono scoppiate le proteste, il premier ha deciso di incontrare i manifestanti. Avrebbe dovuto capire che un Paese deluso dalla nuova crisi aveva bisogno di una concertazione dei sacrifici con chi si sentiva più danneggiato. Avrebbe dovuto incontrare associazioni imprenditoriali e sindacati prima di firmare il Dpcm e di discuterne con le regioni. La fiducia, cioè, andava costruita con pazienza attraverso una sequenza di atti e un discorso in cui il governo dava fiducia per primo al Paese.

Era chiaro che diversi ceti sociali chiedevano il riconoscimento dei loro problemi e delle loro angosce. Un’approvazione che i destinatari avrebbero interiorizzato come autorispetto. Si coglie una domanda di legittimazione di settori sociali che si sentono marginalizzati. Mentre il governo prolungava il blocco dei licenziamenti, che protegge i lavoratori dipendenti, ha varato regole che colpiscono gli autonomi: senza rendersene conto si è posto il lavoro dipendente contro il lavoro autonomo, suscitando il dubbio che l’emergenza non sia uguale per tutti. Che manchi l’equità.

In questo varco la destra radicale e istituzionale si sono mosse: la politica dell’emergenza indebolita dalla carenza di riconoscimento sociale e di equità ha visto vacillare la sua giustificazione etica.

Assediato dall’emergenza, il premier ha finito per sottovalutare il peso del discorso del contagio. Non è riuscito a spiegare l’avversità, né ha aiutato i cittadini ad apprendere dall’impotenza di fronte al virus. Premier e maggioranza cercano di farlo solo dopo aver preso le decisioni. Recuperare non sarà facile. Questa mancanza proietta l’immagine di un governo preso dalla propria autosufficienza, poco collegato con la società. Il rischio è di consegnare il Paese alla sfiducia invece che ai diffusori di fiducia. L’impegno invece dovrebbe essere concentrato in quest’opera di cura del panico morale, affiancando alle misure concrete del decreto un discorso comune e un intenso dialogo che la comunità nazionale possa accettare. Per affrontare i problemi di ordine pubblico occorre fermezza, ma per guidare il Paese lontano dalla spirale della sfiducia occorre intelligenza sociale. Al centro non dovrebbe esserci la malattia ma la difesa dalla malattia.

Se si guarda a quella che gli studiosi di scienze politiche definiscono la «struttura delle opportunità politiche» la destra radicale ha saputo cogliere il momento e il tema, ma gli incidenti hanno gettato ombre sulla loro protesta. La destra mainstream ha anch’essa saputo cogliere il momento e il tema, ma non riesce a indicare un percorso alternativo credibile per evitare il collasso del sistema sanitario e un numero elevato di vittime. Non è riuscita a far emergere una alternativa di senso. Governo e maggioranza hanno perso il momento, hanno colto il tema, ma devono ora dimostrare di sapere reinventare una strategia della fiducia. Occorrerebbe un progetto incardinato sul futuro e sulla difesa della società.

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