Lectura Dantis

Stevka Šmitran

Nel 2010, nella sede romana della Dante Alighieri, a Palazzo Firenze, per il ciclo di Lecturae Dantis, Dante in Europa, ho tenuto la lectio Dante e larea serbo-croata. L’invito era pervenuto un anno prima da Walter Mauro, l’allora segretario della Società Dante Alighieri. Era scontato che avessi confidenza con Dante – scolastica, universitaria e quella, riflessa, trasmessa dagli autori di cui ho scritto e mi occupo da sempre, in primo luogo Ivo Andrić e Miloš Crnajnski, dati i miei natali di confine tra l’Oriente e l’Occidente, nei luoghi della civiltà balcanica, dove era passato l’Impero romano.

Era pur vero che al mio attivo avevo scritto un libro dal titolo Crnjanski e Michelangelo e un saggio sul verso «fuss’io pur lui» dalle Rime di Michelangelo, sulla Cappella Sistina che dipinse salmodiando a memoria la Divina Commedia.

Un continuo susseguirsi di riflessioni, sicuramente tutte valide, ma che dovevano trovare una giusta collocazione per l’incontro con Dante nella lingua dei popoli della terra in cui ero nata.

Mi venivano man mano in soccorso altri coinvolgimenti e brevi scritti fatti sul sommo poeta: il rapporto con Boccaccio che, generosamente, gli suggerisce il titolo Divina accanto a quello di Commedia che Dante aveva dato all’opera e poi, altrettanto generosamente, Dante si fa accompagnare nei due canti da Virgilio «lo mio maestro».

Quando i talenti si riconoscono, si amplificano l’un l’altro. Il caso di James Joyce ed Ezra Pound che fu fondamentale per la stesura dell’Ulisse e per l’uscita del romanzo a Parigi, oppure il caso di André Gide che umilmente chiede scusa a Marcel Proust per non aver riconosciuto alla prima lettura il capolavoro Alla ricerca del tempo perduto che gli vale un doppio riconoscimento. O anche Iosif Brodskij che all’amico, il poeta Wystan H. Auden, dice che è la più grande mente del XX secolo.

Ebbene, Dante mi suscita immedesimazione e reminiscenze nel ripercorrere vecchi scritti sull’esilio, le visite al monumento a Ravenna che trovavo lungo la strada di casa, le visite alla casa di Dante a Firenze, le strade percorse da Beatrice, l’Arno, visti con uno sguardo nuovo. E i tanti discorsi con Mario Luzi sulla Divina Commedia. Aveva preferenza per il Paradiso, e non poteva essere altrimenti; io gli spiegavo che amavo il Purgatorio per i colori e per il verso «donne ch’avete intelletto d’amore» (PG XXIV 51), molto citato dai miei amici poeti spagnoli.

Quella di Luzi la sentivo come una forza riconducibile alla speranza, la mia invece, era riconducibile alle parole che da tanti anni riscrivevo sui miei diari, a mo’ di motto, come una cadenza di ritmo poetico del tempo: «Guido, i’ vorrei che tu Lapo ed io/ fossimo presi per incantamento» (Rime, LII).  Alla rinfusa e senza criterio si sovrapponevano le possibili soluzioni che appuntavo per far conoscere il mio Dante.

Il vero sposalizio è con la lingua.

Nessun elenco, solo cenni della mia attenzione letteraria per Dante e per quelli che, senza alcun ordine, ricordo che considerano Dante anima mundi: Wiliam Blake e José L. Borges di cui si ricorda la celebre frase che se avesse dovuto salvare un solo libro quello sarebbe stato la Commedia.

C’era in me il desiderio di onorare il poeta, eterno custode del pudore e nello stesso tempo il timore di non saper dimostrare appieno quanto l’ordine in Dante significhi il dolore e che è necessario percorrerlo. Lungo sette secoli, la poetica di Dante è stata spiegata e setacciata a dovere, annullando i limiti del tempo.

Ho voluto dare spiegazione del perché la lectio di Roma ha rappresentato un incontro con Dante e non solo una ricerca filologica, non un libro da tenere sul comodino, né un volume della libreria personale, ma un Dante interlocutore. Mi ero presa mesi di studio che sempre più aumentavano perché la curiosità è una catena in cui le associazioni di idee e del sapere sono condizionati anche, e molto, dalla vita personale.

Una cosa mi era chiara, da subito, che di fronte a Dante si è eternamente impreparati e che chiunque si avvicini alle informazioni filologiche, storiche, bibliografiche che lo riguardano, non può dire di aver conosciuto il poeta in toto.

Dante stesso ci guida nella sintesi dell’opera; nella lettera a Cangrande parla dei quattro sensi del poema: letterale, allegorico, morale e mistico-anagogico.

La responsabilità intellettuale va di pari passo con l’attenzione personale: intendo dire che gli autori evocati precedentemente, Andrić e Crnjanski hanno avuto con Dante un rapporto precoce e duraturo.

Dai taccuini inediti, giovanili di Andrić, che non mi è mancato il coraggio di consultare e trascrivere a mano i versi di Dante che lo scrittore aveva appuntato per placare il suo animo di rivoluzionario della Prima guerra mondiale: «È quando mi domandavano “Per cui t’ha così distrutto questo/ Amore?”, ed io sorridendo li guardava, e nulla dicea loro». (Vita nova, IV 3).

Anche Crnjanski che nella sua vita errabonda riportò, al ritorno in patria, solo qualche libro, tra cui Dante, affermava che era pronto «a ricercare un intero anno le parole giuste per tradurre i primi tre sonetti della Vita nova». Aggiungo che quando scriveva queste righe era a Parigi e traduceva i poeti giapponesi, distante da Dante per spazio e per lingua.

Se devo essere più esplicita e se mi posso permettere di dire, io appartengo a questa scuola.

Dante entra nelle traduzioni delle terre dellAdriatico orientale nel Cinquecento, ma era conosciuto da molto prima perché le due sponde dirimpettaie, frontaliere, hanno avuto intensi rapporti nel corso della storia; tali traduzioni furono trasmesse soprattutto dagli scrittori e intellettuali che studiavano nelle università italiane e, al ritorno in patria, traducevano gli scrittori latini e Dante, poi,  nella loro lingua ragusina e bosniaca –  discorso questo da riprendere  in un’altra occasione.

È da tener presente però, anche in questo contesto, che per ogni discorso linguistico-letterario che riguarda le terre del patrimonio linguistico dell’Adriatico orientale, loccupazione dei Balcani da parte degli Ottomani ha rallentato e, in maniera significativa, la nascita della lingua letteraria serbo-croata che avviene con un accordo sottoscritto tra linguisti e letterati serbi e croati, a Vienna a metà Ottocento, grazie soprattutto ad un patrimonio linguistico comune che si è mantenuto vivo per merito della tradizione orale che quella mens in summo seppe conservare e che fu riconosciuta e studiata dalla dotta Europa.

Questo a significare che le traduzioni vere e proprie in lingua serbo-croata, arrivano tardi. Infatti, Dante già nell’Ottocento veniva declamato nei teatri dalmati e tale pratica è in uso ancora oggi presso i popoli degli Slavi del sud, termine tornato in auge dopo la disgregazione della Jugoslavia. Si era creata una situazione di orgoglio nazionale, che la lingua croata e serba dovevano essere messe a confronto per interrogarsi su quanto di quel patrimonio che il popolo ha coniato nei secoli, fosse adeguato all’italiano e potesse essere espresso con la stessa intensità del fondo linguistico e sintattico.

La lectio su Dante partiva da questo dato. Al fine di indagare sul perché e su come la traduzione di Mihovil Kombol a confronto con le altre, a quanto pare a tutt’oggi, fosse la migliore, credo si possa spiegare in parte con la sua biografia: origini dalmate, quelle di Vinodol, nascita serba a Niš, formazione scolastica a Fiume e Senj, studi di slavistica a Vienna, allievo dei grandi slavisti V. Jagić e K. Jireček.

La sua lingua è fatta di espressioni e di varianti comprensibili da tutti i popoli di lingua serba e croata – come è denominata oggi -, ricca di idiomi e anche di localismi come la lingua di Dante richiede.

Il metodo di Kombol era la traduzione a memoria. La leggenda narra che si era avvicinato a Dante per una scommessa, per il suo giudizio morale con la realtà e per la vivacità del suo stile, rispondenti al temperamento del Kombol. Passeggiando traduceva un canto dopo laltro, tanto che li avrebbe scritti sulla carta solo dopo aver ripetuto, corretto e fissato ogni sfumatura dell’espressione poetica.

Nella lectio riporto il caso dell’italianista Mirko Deanović, fondatore dell’italianistica zagabrese che nel suo scritto Lettere dantesche in un campo di concentramento racconta che in una notte, durante la Seconda guerra mondiale, fu svegliato e condotto, con altri intellettuali, nel campo di concentramento a Stara Gradiška. Stava per uscire e tornò indietro, prese il libro di Dante e lo portò con sé.

Potrei pensare che potesse essere Il convivio per la civilitate, per la volontà di perseguire «un solo fine, cioè la felicità degli uomini», un rischio di retorica in cui incorrono i dantisti.

C’è dell’altro. Riporto ciò che nella lectio rigorosa era mancante e, a ragione, ma qui la personificazione di Dante è presente.

Mio nonno paterno, ricco commerciante che aveva fatto lAccademia reale serba a Belgrado, eroe nazionale e i miei nonni materni furono sterminati nello stesso campo di concentramento e nello stesso periodo. Se li avessi mai conosciuti o se li avessi visti in fotografia, avrei detto in proposito, e per sdrammatizzare il distacco – pratica che apparteneva anche a mio padre -, che solo il dolore rivela, che sì, preferivo Dante a Petrarca, e so che loro mi avrebbero capito.

Per chi crede negli ideali, la vita è fatta anche di esclusioni. È una concessione che la biografia fa all’opera. È possibile che il giovane lettore di Dante e che i giovani idealisti, i miei nonni, si siano incontrati. Un richiamo quasi mistico da non escludere per chi lo cerca e chi alla conoscenza applica la sacralità del discendente che ricorda.

Tuttavia, la discendente ha tradotto nella lingua di Dante poeti e scrittori slavi, di lingua serba, croata, slovena, macedone, rendendolo eternamente giovane e imparentato. Ciò è stato possibile perché i temi della vita sono gli stessi, espressi in maniera diversa e traducibili sempre. Ogni lingua ha perfezionato i propri strumenti per essere leloquio delle lingue madri che si intendono al plurale.

ll Sommo poeta ha attirato alla lectio di Roma il pubblico delle grandi occasioni al quale si è aggiunto un numero sterminato dello stesso genere, con il rischio per la scrivente che, tracciando il profilo di Dante, ha lasciato il proprio, che si spera inedito.


Lecturae Dantis  

Se tutti i giorni sono un rituale uguale
la solitudine raccolta negli occhi
cadrà come i fiori dagli alberi a marzo
tròvati una fiamma che confonde la luce

Dante dalla finestra
ficcando li occhi verso loriente
ha trafitto le stelle da vive e da morte
e s’impossessa delle nude costole del tempo

Se tutti i giorni sono un rituale uguale
sfoglia ogni aurora nel divenire il sole

Sappiate però che un altro nido di nuvole
ho messo in rima.

(Stevka Šmitran, Inedito, 2015)

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