Oppenheimer, scienza e tormento

Carla Petrocelli

In una sala gremita di giovanissimi, stranamente silenziosi e assai curiosi, fin dai minuti iniziali Christopher Nolan cattura l’attenzione: evoca il mito di Prometeo, il leggendario titano che ha rubato il fuoco agli Dei per darlo all’umanità, quasi come un avvertimento per ciò che stiamo per vedere, l’annuncio di una tragedia unicamente americana. Emerge subito come la teoria della relatività abbia sconvolto il mondo, influenzando il pensiero umano, gli studi filosofici, sociologici, la psicologa, l’arte. L’approccio di Nolan somiglia alla donna scomposta del quadro di Pablo Picasso mostrato nelle prime scene: una narrativa disarticolata che ci costringe a unire tutti i pezzi, ma che risulta funzionale per trattare i temi cari a Nolan.

Come ha fatto spesso nel corso della sua carriera, Nolan adotta questo approccio non lineare della storia, esponendo la vita e il lavoro di Julius Robert Oppenheimer (1904-1967), il padre pacato e intensamente brillante della bomba atomica, rimbalzando con precisione e grazia tra momenti cruciali della sua vita, dal giorno in cui ha incontrato la sua futura moglie Kitty, al suo arrivo all’Institute for Advanced Study di Princeton, all’avvio del Progetto Manhattan con il quale avrebbe dato vita alla prima arma nucleare al mondo. Lo scopo di Nolan non è solo quello di giocare con certe simmetrie nella vita Oppenheimer, ma è soprattutto quello di dettagliare scientificamente gli avvenimenti per provocare nel pubblico una sorta di reazione a catena, proprio come avviene per detonare la sua arma nucleare. Sebbene questa sensazione ci accompagni sin dai primi minuti della pellicola, i salti temporali non ci sembrano mai un espediente usato da Nolan per dare più valore a una sceneggiatura che, in verità, solo lui ha la capacità di rendere splendida.

Il regista si avvale di una fotografia che rende significativo qualsiasi dettaglio, dalla neve del New Mexico alle udienze del Senato girate in bianco e nero, da una colonna sonora incandescente che ci accompagna per tutto il film, sin dagli anni dei primi esperimenti, per arrivare al test finale. Poi, naturalmente, c’è il cast. Primo tra tutti, Cillian Murphy (l’attore irlandese protagonista di Peaky Blinders) nel ruolo di Oppenheimer, eroe e genio, bravissimo nel farci essere costantemente indecisi e pensare forse che lo scienziato, in effetti, potrebbe non essere proprio «una brava persona». L’elenco prosegue lunghissimo: Robert Dawney Jr., Emily Blunt, Matt Damon, Kenneth Branagh, Matthew Modine, Rami Malek, Gary Oldman.

Nolan racconta la storia del fisico teorico Julius Robert Oppenheimer che, durante la Seconda guerra mondiale, è a capo del Progetto Manhattan nato con l’obbiettivo di costruire la prima bomba atomica. Oppenheimer è un leader carismatico, un intellettuale pubblico, vittima della «paura rossa» che nel 1954 lo addita come parte in causa di associazioni con sospetti comunisti. La politica, che gioca il ruolo principale nel film (Nolan non sfugge alla denuncia del maccartismo), non offusca però l’attesa di uno dei più importanti avvenimenti che hanno segnato il corso della scienza, l’esplosione più famosa della storia dell’umanità. Il Trinity Test, avviato a 300 miglia a sud di Los Alamos, nel deserto del New Mexico, arriva lentamente nel film, lasciando che il peso del momento si posi piano piano sugli attori e sul pubblico. Poi, in un istante, tutto è strappato via da una delle sequenze tra le più abbaglianti, ma contemporaneamente sobrie, che risulta difficile descrivere se non la si vive sulla propria pelle, partecipando con i protagonisti alla tensione del momento, pur sapendo quale sarà l’epilogo e quali conseguenze avrà sull’umanità.

Robert Oppenheimer è un ammasso di contraddizioni e complicazioni, è brillante, eppure, per sua stessa ammissione, sembra distante ed egoista, è in grado di tener testa a studenti e colleghi in aule gremite, ma crolla di fronte alle crisi personali. È uno dei più geniali creatori della più discussa invenzione del XX secolo, ma è anche uno dei suoi distruttori più riconoscibili. Nolan avrebbe potuto incentrare il suo film attorno a una qualsiasi di queste contraddizioni, invece ce le mostra tutte, mettendo in risalto sia il lato positivo di Oppenheimer, che quello negativo, tanto da farci ritrovare suoi sostenitori in una scena e odiatori in quella successiva. Il suo è un notevole esercizio narrativo che crea un equilibrio tra il mito di uno scienziato che ha il potere di creare forze distruttive, ma che trascorre il resto della sua vita crollando sotto il peso dell’orrore che ha generato.

«Se la bomba atomica doveva avere un significato nel mondo contemporaneo, doveva essere quello di dimostrare che non l’uomo moderno o i suoi eserciti, ma la guerra stessa era obsoleta» dichiarerà Oppenheimer, nel 1948. Sorprendentemente, arriverà a sostenere che la bomba di Hiroshima era stata usata «contro un nemico essenzialmente sconfitto»: saranno probabilmente anche questi schietti dissensi a procurargli un’accusa di slealtà contro l’establishment della sicurezza nazionale di Washington e a decretare la fine della sua carriera negli ambienti governativi che decideranno il futuro dell’energia atomica negli anni della Guerra Fredda.

Il profondissimo fulcro della vicenda è il terrore verso la scienza che, se da un lato apre a nuove vie, dall’altro può avere implicazioni negative. Robert Oppenheimer passa la sua vita tormentato da questi dilemmi morali, straziato tra il desiderio di superare i limiti conosciuti e la consapevolezza di quello che lui stesso può creare, giustificato dalla necessità di fermare la mostruosità nazista. Per tutto questo e altro ancora, Oppenheimer merita il titolo di capolavoro, è un film tremendamente realistico, angosciante, magnificamente terribile.

La storia è purtroppo tutta al maschile. Eppure, a Los Alamos hanno lavorato circa 640 donne, per lo più amministrative, ma, almeno per la metà, matematiche, fisiche, chimiche, biologhe e analiste computazionali. Tuttavia, mentre il Progetto Manhattan non sarebbe giunto a termine senza il lavoro di queste scienziate, le poche donne del film, nel prendersi cura dei loro figli, hanno più che altro a che fare con le faccende domestiche, piangendo, facendo il tifo per i loro uomini, affogando la loro solitudine in fiumi di alcol.

Tratto dalla biografia di Oppenheimer scritta da Martin Sherwin e Kai Bird, American Prometheus, vincitrice del premio Pulitzer, che ha richiesto agli autori un lavoro storico di documentazione di circa 25 anni, mi chiedo se la presenza massiccia di quei ragazzi così interessati presenti in sala non sia stata frutto di un battage pubblicitario che dura da mesi, che non si sia volutamente generata una sorta di challenge con la pellicola, campione di incassi, uscita quasi contemporaneamente nelle sale cinematografiche, Barbie. Siamo sicuri che non sia solo un’operazione di puro marketing per trascinare al cinema masse di teenager? Ce ne dà conferma l’hashtag di tendenza sui social, #Barbienheimer, con il quale si è lanciata la sfida «i film vanno visti entrambi lo stesso giorno».

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