Raffaella Carrà, Pasolini e il campo progressista

Giorgio Simonelli

In questi giorni di sentita e sincera partecipazione al lutto per la scomparsa di Raffaella Carrà, tra le molte celebrazioni delle sue qualità artistiche, professionali e umane non poteva mancare una giustificata remora, apparsa tra le righe di qualche dichiarazione.

Ma insomma, si è chiesto qualcuno, come è possibile che si parli di una Raffa non solo grande professionista ma anche simbolo di una televisione popolare ma mai volgare, portatrice di una proposta di civiltà e di progresso, proprio in quegli ambienti culturali in cui i suoi programmi sono stati a lungo considerati elementi di pura evasione, di disimpegno un po’ troppo frivolo?

Impossibile dimenticare le parole terribili che Pasolini scrisse a proposito di una puntata di Canzonissima del 1969. E non c’è motivo di pensare che il suo giudizio sarebbe stato meno duro se gli fosse capitato di vedere le Canzonissine del 70 o del 71, quelle del Tuca Tuca, oggi celebrate tra i capolavori raffaelliani.

La lieve polemica non è pretestuosa, la contraddizione esiste: quel tipo di comunicazione di massa non poteva non suscitare le riserve e le perplessità di chi nell’osservare quel mondo aveva un forte legame con le profonde analisi francofortesi sull’industria culturale. E non basta certo a risolvere il problema l’appartenenza personale della Carrà all’area di sinistra, progressista, manifestata pubblicamente nelle interviste, in tanti interventi nelle battaglie per i diritti civili.

Per semplificare, il sospetto che una Carrà di sinistra e battagliera nella vita facesse una televisione moderata, un po’ arma di distrazione di massa, come si diceva ai tempi, era, appunto ai tempi, non certo impossibile. Anche nella sua esibizione assai audace del corpo, il confine con la mercificazione era assai labile.

Poi è accaduto un episodio che ha cambiato tutto. Nel 2017, all’inaugurazione della mostra TV 70, una rassegna dedicata al ruolo d’avanguardia artistica della televisione italiana in quel decennio, alla Fondazione Prada, Francesco Vezzoli proponeva una lettura del tutto opposta.

«Raffaella Carrà ha contribuito a liberare il corpo delle donne forse più di molte femministe. Il suo è stato un cambiamento culturale in un momento in cui i politici non pensavano alla Rai come un luogo importante. La televisione la potevano fare le belle donne che ballavano, quindi il corpo della donna poteva attrarre e intrattenere, ma le cose serie stavano altrove. E invece il corpo si è vendicato ed è diventato potentissimo anche dal punto di vista politico».

Sanata questa contraddizione, si può aprire anche un altro fronte forse ancor più complesso. Quelle trasmissioni, quelle Canzonissime con le loro sigle e i loro balletti non contengono solo quegli elementi imbarazzanti che suscitarono l’ira funesta di Pier Paolo Pasolini. In quei brani di televisione c’è una ricerca formale a livello figurativo, a livello cromatico (nelle sfumature del bianco e nero), nella composizione dell’inquadratura, nella sovrapposizione tra il corpo della soubrette, il corpo di ballo e i vari oggetti di scena che spiega quell’impressione di eleganza della tv di un tempo oggi tanto rimpianta.

Le inquadrature di quei varietà, realizzate da grandi registi, lungi dall’essere banali prodotti per il consumo di massa realizzano immagini ora di stampo futurista ora magrittiano. Al cento di questo lavoro di sperimentazione sul linguaggio televisivo c’è l’icona (nel senso proprio della parola e non in quello banale oggi diffuso) di Raffaella. Anche, anzi soprattutto, questo può fare piazza pulita di alcune vecchie incomprensioni e definisce la sua appartenenza a un campo progressista.

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