Retribuzione di genere. Le nuove leggi per la parità nelle organizzazioni del lavoro

Mirella Giannini

L’anno che sta per finire, il 2021, ha segnato una tappa importante nel percorso normativo teso a dare attuazione all’articolo 37 della Costituzione in tema di parità retributiva tra uomo e donna. Fino ad ora, e partendo dal Codice di parità del 2006, il legislatore ha mostrato una qualche tiepidezza nel riformare le disposizioni in materia di pari opportunità in ambito lavorativo. Eppure, i dati sulla discriminazione di genere, registrati da Eurostat, denunciavano la persistenza di un tasso di occupazione femminile di molto inferiore alla media europea e anche il fatto che i differenziali retributivi di genere fossero definiti in massima parte da comportamenti discriminatori nelle relazioni di lavoro.

Si pensi che, nel nostro Paese, il tasso occupazionale delle donne tra 15 e 64 anni non ha superato quasi mai la quota del 50%. Durante l’anno della pandemia è sceso al 49% circa, e nel Sud Italia molto al di sotto del 35%, a fronte del 62, 4%, che è stata la media raggiunta in Europa. Che poi anche per gli uomini il tasso d’occupazione sia stato e continui ad essere generalmente inferiore alla media europea, questo significa che per loro è difficile trovare lavoro, ma è indiscutibile che per le donne sia ancora più difficile. Per quanto riguarda i differenziali retributivi di genere, la percentuale del 5%, misurata sulla retribuzione oraria del salario medio maschile, può sembrare non alta rispetto alla media europea del 15% e perciò non davvero discriminante per le donne. Tuttavia, il dato italiano si alza enormemente se si misura sulla retribuzione annua, che perciò considera la minore quantità di ore di lavoro delle donne.

Inserita pure nel contesto della bassa quota di donne occupate, la differenza retributiva è un gap di genere alimentato da discriminazioni, cioè da disparità di trattamento a parità di ogni altra condizione. Infatti, Eurostat stima che in Italia la componente discriminatoria del differenziale retributivo è al 12% e che per eliminarla o ridurla bisognerebbe intervenire sulle cause che la determinano, cioè la minore partecipazione femminile al mercato del lavoro, il maggior ricorso al part time, le frequenti interruzioni di carriera, l’influenza degli stereotipi di genere.  I differenziali retributivi sono insomma indicatori di una perdurante discriminazione nei confronti delle donne, e anche di quelle che hanno raggiunto i requisiti formali per i posti del lavoro qualificato che sono stati tradizionale appannaggio degli uomini.

Si dice comunemente che il divario di genere che riguarda la retribuzione del lavoro si inserisca tra le principali forme discriminatorie, quelle che convenzionalmente sono chiamate allocativa e valutativa. La prima sta ad indicare la differente allocazione di donne e uomini nel mercato del lavoro, per cui è molto facile trovare un maggior numero di donne nelle occupazioni meno redditizie, come nel settore del terziario tradizionale, o nell’area del lavoro flessibile. La seconda consiste nella minore valutazione del lavoro delle donne rispetto a quello degli uomini anche quando svolgono gli stessi compiti e le loro capacità sono quindi comparabili.

Certo queste forme non esauriscono il ventaglio dei modi di discriminare, come quello a livello individuale, che retribuisce meno una donna che un uomo nella stessa azienda, o quello indirizzato a specifiche categorie, che assegna una retribuzione più bassa per le occupazioni tradizionalmente femminili. Invero se il tipo di discriminazione individuale è vietato in molti paesi occidentali, quello per categorie occupazionali risponde ad una valutazione sociale, perciò difficile da contrastare con politiche di riequilibrio di genere. L’ipotesi è che queste discriminazioni siano l’effetto del puro pregiudizio di genere, cioè della cultura maschile, che non si limita a supporre che le donne debbano conciliare famiglia e lavoro e quindi ridurre perciò il loro impegno lavorativo. Infatti, se il pregiudizio di genere riguardasse solo questo, quando si tratta di giovani donne si dovrebbe paradossalmente parlare di pregiudizio differito.

Queste ipotesi si complicano quando si collega la distribuzione delle donne nelle posizioni lavorative e retributive alla loro posizione nella struttura sociale. Se lo status sociale è medio basso, infatti, la discriminazione è soprattutto allocativa. Infatti, l’allocazione di donne e uomini nel mercato del lavoro appare risentire, già in partenza, delle specificità sociali e culturali di tradizionali relazioni di genere. L’ingresso delle donne nel mercato del lavoro appare socialmente legittimato se si indirizza nelle occupazioni a basso reddito, integrativo rispetto ai redditi familiari. In realtà in queste fasce sociali e ai livelli medio-bassi di qualificazione, il pay gap rispetto agli uomini può essere minore in quanto generalmente i lavori sono tutelati da accordi o contrattazioni sindacali dal carattere universale, o da politiche che prevedono incentivi alla formazione e sostegno alla conciliazione. Certo, a volte, la combinazione della situazione sociale e lavorativa diventa una trappola per la povertà, e si può uscirne solo con le politiche sociali di sostegno al reddito.

Nelle posizioni professionali medio-alte, invece, le donne sono oggetto di discriminazione valutativa. In altri termini, queste incontrano quegli ostacoli che impediscono soprattutto lo sviluppo di carriera e di reddito. Le donne entrano in queste posizioni lavorative grazie ad un capitale culturale e sociale, ma spesso non raggiungono l’apice o hanno difficoltà nel raggiungerlo, tanto che si sono usate diverse metafore come leaky pipe, ceiling glass, invisible college, old boys network. Qui, le discriminazioni derivano dal fatto che le professioni qualificate, specie se indipendenti, sono state tradizionalmente maschili e ancor oggi dominate dagli uomini.  Pertanto, anche se all’interno di queste professioni occupano spesso degli spazi meno appetibili per gli uomini, le donne entrano in una competizione squilibrata in partenza, perché le strutture lavorative sono state costruite e organizzate al maschile.

È da dire che, a questi livelli di qualificazione, il lavoro è privo di tutele sociali relative al genere femminile, perciò all’ingresso e durante il percorso di carriera contano le risorse soggettive e le condizioni organizzative. In altri termini, nei contesti del lavoro professionale e dirigenziale, la gestione delle relazioni è individualista e personalizzata, ed è facile che sia influenzata da pregiudizi di genere. Nella valutazione di lavori comparable worth, accade così che le donne siano meno valorizzate e percepiscano un reddito minore. È poi provato quanto la cultura organizzativa incida sulla valorizzazione o sulla de-valorizzazione del lavoro femminile. Sono abbastanza diffusi i casi in cui le relazioni di lavoro, specie nella grande impresa, risentendo del retaggio culturale della società industriale, dove la figura professionale produttiva è stata manifestamente maschile, alle donne appare come riservato lo spazio gestionale nell’area terziarizzata delle organizzazioni del lavoro.

In queste organizzazioni e in vista della parità retributiva, l’ipotesi è che le donne finiscano, forse anche inconsapevolmente, per adottare stili di lavoro e di vita che si adeguano al modello di un’organizzazione del lavoro costruita al maschile. Diversamente, nei casi in cui l’organizzazione appare impregnata di una cultura favorevole a valorizzare le donne, come nell’imprenditoria femminile o nelle piccole imprese del terziario e dei servizi alla persona, l’ipotesi è che una certa flessibilità organizzativa permetterebbe l’adeguamento alle esigenze familiari.

Un’altra ipotesi sorge, laddove, come nelle organizzazioni dalla cultura maschile, nei settori della PA, o nell’università, molte donne, specie quelle meno giovani, pure se raggiungono posizioni apicali, sembrano rinunciare a guadagni o indennità aggiuntive che permetterebbero un percorso competitivo con gli uomini. Ebbene, sembra che queste donne presentino un’alternativa allo stile lavorativo degli uomini scegliendo di non adeguarsi e preferendo uno stile di vita che rifiuta la logica organizzativa maschile. Sembra che rinuncino, coraggiosamente o con rassegnazione, all’obiettivo della parità misurato sulla retribuzione. Questi comportamenti suggeriscono che gli interventi normativi per essere più consoni ad una reale promozione della parità di genere dovrebbero porsi l’obiettivo di non pensare al lavoro femminile come se fosse maschile, dovrebbero piuttosto ispirarsi ad una politica di incentivi per il cambiamento del modello organizzativo delle relazioni di lavoro, costruito al maschile.

C’è un compito per chi vuole seguire questa sollecitazione al cambiamento, ed è quello di contribuire a fondare un’organizzazione economica favorevole agli stili di lavoro che rispondano al paradigma della cura e che siano basati su una responsabile condivisione. Nella tradizione, il guadagno che si basa su un competitivo individualismo è un paradigma maschile, e su questo, si è sempre misurata la valorizzazione del lavoro. Valorizzare il lavoro di uomini e donne, conferire qualità e dignità a un lavoro giustamente retribuito, questo è un compito possibile ma arduo, perché significa cambiare il paradigma organizzativo, falsamente razionale e neutrale, per un paradigma universale e anticapitalistico. In questa prospettiva, ridurre il divario retributivo significa cambiare paradigma, indicatori, logiche delle organizzazioni del lavoro.

In questa direzione sembrano andare i recenti provvedimenti legislativi, a livello nazionale, appunto con la legge del 2021, c.d. legge Gribaudo, e a livello regionale, con le leggi del Lazio e della Puglia, c.d. legge Capone, che hanno addirittura anticipato quella nazionale, inserendole in un percorso di attivazione di politiche di genere, come l’Agenda di Genere promossa durante l’attuale legislatura pugliese dalla consigliera De Simone. In definitiva, essendo focalizzati sul monitoraggio e sulla certificazione delle strategie d’impresa, e non solo di quelle di medio-grandi dimensioni, tali provvedimenti incentivano la trasparenza e la premialità delle buone pratiche in materia di parità di genere e cercano, con misure concrete, di scoraggiare le discriminazioni indirette per raggiungere la parità retributiva.

Certo, non è sufficiente una legge per cambiare la cultura organizzativa che valorizzi il lavoro femminile anche attraverso una retribuzione pari a quella data agli uomini che mostrano uguagli capacità e raggiungano uguali risultati lavorativi. Ma una legge è necessaria per aprire le porte ad un cambiamento culturalmente fondato su quel paradigma della cura che, fino ad ora, è stato escluso dal lavoro organizzato al maschile. Il cambiamento è un compito arduo che ha finalmente degli strumenti normativi ma che spetta ora a donne e uomini di buona volontà portare a compimento.

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