Cosa fare del Jobs Act?

Francesco Errico

Se il Partito Democratico confermerà l’intenzione di partecipare alla raccolta delle firme per abrogare il Jobs act, accodandosi a CGIL e M5S, difficilmente lo farà in un clima unanime.

È questo uno degli aspetti più interessanti emersi nel dibattito, con Maurizio Del Conte e Debora Serracchiani, a Lector in fabula, nell’edizione da poco conclusa.

Il Jobs Act è una legge promossa dal centro-sinistra ed in particolare dal Partito Democratico e che, paradossalmente, lo stesso partito sembra oggi mettere in discussione. Promossa dal centro-sinistra orientata a redistribuire opportunità, protezioni e tutele anche a chi prima non le aveva, occupati e persone in cerca di una occupazione, superando il vecchio approccio della difesa del posto di lavoro piuttosto che del lavoratore e favorendo, per quanto una legge possa fare, il contratto di lavoro dipendente come forma prevalente. I dati sull’occupazione (nel periodo 2015/giugno 2023) confermano una sostanziale efficacia della riforma. Come ci dicono che non c’è stata affatto l’ondata di licenziamenti temuti.

Il Jobs act, aspetto non trascurabile, ha armonizzato il Diritto del Lavoro italiano con quelli degli altri Paesi Europei. Insomma, eravamo un unicum.

Queste riflessioni, meglio di come abbia potuto farlo io nel corso dell’incontro, sono state sottoposte all’attenzione del pubblico da Maurizio Del Conte, il quale ha anche sottolineato la parte della riforma rimasta in buona parte inattuata, quella delle politiche attive del lavoro, indispensabile per guidare le transizioni da un lavoro ad un altro. Rivolgere lo sguardo alla occupabilità delle persone più che al posto, alla sedia che si occupa e che, per motivi oggettivi, può anche traballare.

In altre parole, completare più che abrogare. E Debora Serracchiani non è stata molto distante da queste posizioni, convenendo sulla bontà di obiettivi generali e impianto della riforma e ponendo l’accento sull’inesistenza, finora, del quesito da sottoporre eventualmente al corpo elettorale. Non proprio un aspetto secondario.

Sembra essere un’iniziativa intrapresa senza troppa convinzione e, soprattutto, senza precisare bene cosa si vorrebbe abrogare. L’intero provvedimento? Cioè, i contenuti di una Legge-Delega e otto Decreti Delegati?

È tutto da buttare via? Oppure una parte, un articolo, un comma? Quale? E cosa in concreto cambierebbe nella vita dei lavoratori?

Il fatto che una personalità politica del Partito Democratico di primo piano come la Serracchiani, peraltro giuslavorista, abbia sottolineato queste ambiguità, rafforza l’idea di un confronto aperto all’interno del maggior partito del centro-sinistra, dagli esiti ancora incerti. Un confronto su quale concezione il nuovo (vecchio?) Partito Democratico abbia delle politiche del lavoro, quale direzione prendere per un mercato del lavoro più equo ed inclusivo, su come, in altre parole, coniugare flessibilità e sicurezza, due dimensioni che debbono necessariamente armonizzarsi nel mondo del lavoro contemporaneo.

Invero, Debora Serracchiani ha precisato che dal 2015, anno di approvazione del Jobs act, ad oggi sono accadute tante cose che hanno cambiato il quadro socioeconomico del Paese e, almeno in parte, il nostro modo di vivere e lavorare. La pandemia anzitutto, che ha avuto ripercussioni importanti sulle attività economiche, la cassa integrazione concepita ad hoc, attività produttive che hanno chiuso i battenti e non li hanno più riaperti; l’impennata dell’inflazione ed il conseguente aumento dei tassi di interesse che hanno e stanno mettendo a dura prova i ceti sociali più fragili.

Il Legislatore ha dunque il dovere di tenere conto di una situazione generale molto differente rispetto ad otto anni fa. Una legge può essere cambiata, può essere aggiornata. Mi pare una posizione ragionevole e ben diversa rispetto all’indizione di un referendum popolare abrogativo.

Cambiare troppo spesso il quadro normativo, quello sul lavoro in particolare, non è una buona idea. Sotto questo aspetto otto anni non sono molti. È necessario un quadro di regole che dia certezze nel medio-lungo periodo, che non generi ansie ed interrogativi sia nella domanda di lavoro (che deve poter programmare con sufficiente tranquillità qualità e quantità degli organici) sia la stessa offerta di lavoro.

Nel quinquennio 2015/2020 (prima dell’irrompere del covid) si è registrato un significativo aumento del numero degli occupati. Forse non basta per dimostrare un nesso diretto fra questo dato e l’entrata in vigore della riforma, ma il dato è comunque questo.

Se chi pensa a un referendum abrogativo ritiene di riproporre una concezione del lavoro come job property, dovrebbe spiegare come mai si sia potuto tollerare che questa sorta di «diritto all’inamovibilità» fosse in realtà, con il vecchio regime, negato a qualcosa come la metà di lavoratori e lavoratrici nel mercato del lavoro. E come mai questo presunto diritto sia sconosciuto in tutti i Paesi dell’Occidente, anche quelli dove governa, o ha governato, la sinistra.

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