Moacyr Barbosa, il portiere diventato invisibile

Darwin Pastorin

C’era quel silenzio, quel silenzio profondo e lacerante, Moacyr Barbosa. E tu per terra. E il pallone in rete. E quel silenzio. Duecentoventimila persone ammutolite incredule smarrite, allo stadio Maracanã di Rio de Janeiro.

Gli uruguaiani si abbracciarono senza dire una parola. Ghiggia, l’autore del gol del 2-1 dell’Uruguay sul Brasile, nella partita decisiva della Coppa Rimet, aveva le lacrime agli occhi: forse non era felicità, forse era la consapevolezza di aver decretato la fine di un uomo, la tua fine Moacyr, primo portiere nero della Seleçao.

Obdulio Varela, il capitano della Celeste, mormorò, orgoglioso, ai suoi compagni: «Adesso sì, adesso potete guardare in alto tutta quella gente. Ora non fa più paura». Tu, Moacyr, chinasti il capo per la prima volta nella vita. Fin da ragazzo avevi subito mille offese, «negro!» ti urlavano con disprezzo: ma mai avevi abbassato la testa. Nemmeno quando, nel 1940, un barbiere di Porto Alegre ti schiumò in faccia: «Vattene, qui non serviamo i negri». Tu, semplicemente, lo guardasti fisso negli occhi. Sorridendo, sì sorridendo. E fu lui ad arrossire.

16 luglio 1950, ultimo atto della Coppa del Mondo: tu, Moacyr, sei morto quel giorno. Per una rete. Non ci fu nessuna festa, nessun carnevale, nessuna stella filante, nessun ballo. Il Brasile, quel giorno a Rio, scopriva il dolore del pallone.

Il 7 aprile 2000 te ne sei andato per sempre, a 79 anni, un ictus hanno decretato i medici. Non è vero.

Tu sei morto per un gol, la tua è stata una condanna a vita per una colpa non commessa. E noi siamo stati i tuoi assassini. Nessuno escluso. Noi che ti abbiamo abbandonato, deriso, che non abbiamo saputo regalarti un’ultima parata, un gesto di assoluzione, di puro affetto, di semplice amore. Ti abbiamo lasciato solo. Abbiamo raccontato di giocatori senza qualità, abbiamo perdonato errori grossolani, abbiamo celebrato ombre, ipotesi di giocatori, chiamato fuoriclasse i mediocri. Ma per te, Moacyr Barbosa, abbiamo scelto il silenzio. Un silenzio vile.

Ti avevamo cancellato dalle nostre storie, dalle nostre cronache. Tu, l’invisibile. Dal 1950 a oggi, siamo riusciti a farti restare ancora per terra, sul prato verde del Maracanã. Io ti voglio chiedere scusa.

Io che non ero ancora nato in quel 16 luglio 1950. E, confortato da una pioggia sottile, in questa stanza di libri e nostalgie, desidero rendere gloria a te, Moacyr, e a quel calcio che ancora conosceva il sentimento, la poesia, l’odore della zolla, la maglia di flanella senza sponsor, pesante d’estate, leggera d’inverno, con quei numeri troppo grossi, quei numeri che narravano l’uomo prima del giocatore, il 7 era l’ala destra, l’immaginazione al potere, il 10 il fantasista, il rebelde. E il portiere, il numero 1, volava da un palo all’altro, come un angelo, proprio come hai sempre fatto tu, Moacyr Barbosa, gloria del Vasco da Gama e della Seleçao.

Avevi quel modo unicamente tuo di bloccare la palla: saltavi con l’attaccante, lo anticipavi, prendevi il pallone con una mano, lo portavi al petto e soltanto in quel momento lo bloccavi con le due mani.

Tu, Moacyr, sei stato un estremo difensore immenso. Pensa, che ironia: i giornalisti presenti al Mondiale del ’50 ti nominarono miglior portiere della manifestazione! Ma per i brasiliani quella non fu altro che la beffa nella tragedia. Sì, tragedia. Per un incontro di football. Suicidi, persone impazzite, depresse, incapaci di superare il trauma. Assurdo, eppure anche a questo riesce ad arrivare l’uomo quando delega ad altro o ad altri la propria felicità. Tutto per quel gol di Ghiggia. «Un tiro che ho rivissuto un milione di volte», ripetevi, le poche volte che qualcuno veniva a trovarti.

Adesso, tutto è finito. Quella rete non tormenterà più la tua esistenza. Sei sepolto al cimitero Morada da Grande Planície, in Paia Grande, Stato di San Paolo. Hai raggiunto la tua adorata moglie Clotilde. Soltanto lei sapeva parlarti, consolarti, farti sorridere. Non avete avuto figli, c’eravate solo voi, a dispetto del mondo intero. Passeggiavate mano nella mano, come ragazzini. Eravate il sole e le stelle. Eravate meraviglia e bellezza.

Lo stadio Maracanã dovrebbe portare il tuo nome, mio Moacyr, mio campione.

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