Mané Garrincha, purezza e fantasia di un eroe tragico

Darwin Pastorin

Sei stato la fantasia e la purezza, Mané Garrincha: fuoriclasse senza tempo e senza età, ala destra del Brasile campione del mondo nel 1958 in Svezia e nel 1962 in Cile, stella del Botafogo di Rio de Janeiro. Per me che scrivo di pallone, e per tutti noi che pensiamo che il football sia un gozzaniano e breriano «mistero senza fine bello», poesia pura, sei l’eroe claudicante, l’angelo dalle gambe storte.

Ci hai fatto credere nelle utopie ancora possibili, nell’orgoglioso riscatto da un’infanzia di dolore. Hai conosciuto il trionfo e poi il crollo. Milioni di mani ti hanno toccato, implorato, accarezzato, ma te ne sei andato senza che se ne accorgessero. Nessuno, mai, è riuscito a umiliarti, pochi ti sono rimasti vicino fino alla fine. La solitudine di un eroe, un eroe tragico. Sei morto nel delirio e nell’inconsapevolezza, stordito dal vortice di prodezze, donne, figli, successi. Facile cancellarti per la morale comune: mulatto, ignorante, ex poliomielitico, travolto dal tuo stesso mito di giocatore istintivo.

«Allegria della gente», ti avevano soprannominato al culmine della gloria, quando il Brasile, il mio Brasile, tutto il Brasile, si fermava ad ammirare le tue meraviglie. E quella finta, quell’impossibile assurda e magica finta, l’antitesi del dribbling, sempre la stessa: tu Garrincha che fingi di andartene sulla sinistra, l’avversario che abbocca, poi lo scatto (un lampo) sulla destra. Sempre così, con monotona precisione, una stilettata al cuore di qualsiasi difesa.

E la gente cantava e ballava. Il poeta e cantautore Vinicius de Morata ti dedicò un poema in musica, una ballata popolare: «…. Felice tra i suoi piedi alati! / In un solo slancio rapita la folla pentita / In un atto di morte si innalza e grida / Il suo unanime canto di speranza / Garrincha, l’angelo, l’ascolta e risponde / Goool! / … È pura danza».

Ad amarti è stata la gente comune e i poeti che, come te, possiedono un cuore fanciullo. Carlos Drummond de Andrade scrisse sul Jornal do Brasil: «Fu un povero e semplice mortale che aiutò un paese intero a sublimare le sue tristezze. La cosa peggiore è che le tristezze ritornano e non c’è un altro Garrincha disponibile. Ne occorre un altro che continui ad alimentarci il sogno».

E ancora Vinicius de Moraes, nel suo Canto d’amore e angoscia per la Nazionale d’oro del Brasile, modulò: «La rivoluzione sociale in marcia si ferma meravigliata a vedere il signor Mané palleggiare e poi prosegue il cammino».

Scrisse Edilberto Coutinho: «Perché il calcio come la letteratura, se ben praticato, è forza di popolo. I dittatori passano. Passeranno sempre. Ma un gol di Garrincha è un momento eterno. Non lo dimentica nessuno».

Resta la memoria dei sogni che abbiamo sognato, che hanno cullato i nostri giochi di bambini. Con tenerezza, riprendo me stesso fanciullo per mano, un ragazzino che, su quei prati che erano ancora prati, urlava ai suoi amici «Io sono Garrincha!», e con il numero sette che mia madre mi aveva cucito sulla maglia inseguivo un pallone e la vita.

Obrigado, Mané.

Grazie per la tua favola infinita, per la tua felicità, per la tua malinconia, per il tuo stupore, per la tua incredulità, per i tuoi gol possibili e impossibili.

In tutti c’è stata bellezza.

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