Argon e Carbonio, onomastica di Primo Levi

Giusi Baldissone

Nei confronti della letteratura Primo Levi ha lo sguardo dei primi scrittori, filosofi, naturalisti, che sapevano di dover usare il linguaggio del poema epico o didascalico per una più agevole comunicazione-memorizzazione, sapendo che la forma letteraria, poetica, comportava un rigore linguistico tale da conferirle un carattere scientifico. Il segno era il senso, anche prima che De Saussure lo teorizzasse, e lo sforzo della natura nel comunicare con gli uomini è il tema di Eraclito, Democrito, Epicuro, Lucrezio. I rerum simulacra lucreziani rappresentano il modo in cui la natura comunica con gli uomini, con i loro occhi, quando ne ha la forza, o con gli altri sensi, quando emana particelle più deboli. Questa è l’immagine più significativa per rappresentare il poema didascalico e la sua «volontà di rappresentazione». In Dante è presente la stessa immagine, fino alla visione finale del Dio-specchio, nel cuore di luce del Paradiso.

Nel Sistema periodico (1975) Levi riflette sulla scrittura di un chimico che sceglie l’altrui mestiere: «L’abitudine a penetrare la materia, a volerne sapere la composizione e la struttura, a prevederne le proprietà ed il comportamento, conduce ad un abito mentale di concretezza e di concisione, al desiderio costante di non fermarsi alla superficie delle cose. La chimica è l’arte di separare, pesare e distinguere: sono tre esercizi utili anche a chi si accinge a descrivere fatti o a dare corpo alla propria fantasia».

Il nome degli elementi nel Sistema periodico esprime una volontà epica di narrare «le avventure spirituali di un chimico»: Levi lo spiega nel saggio Lo scrittore non scrittore: «Il mio modello di scrivere è il “rapporto” che si fa a fine settimana in fabbrica. Chiaro, essenziale, comprensibile da tutti. Ecco perché a chi mi chiede «perché tu sei un chimico e scrivi», io rispondo: «scrivo perché sono un chimico. La mia professione mi serve a comunicare esperienze. Al mio mestiere devo la vita.

Non sarei sopravvissuto ad Auschwitz, se dopo dieci mesi di dura manovalanza non fossi entrato in un laboratorio, dove ho continuato a fare il manovale, ma al coperto. La qualifica di chimico mi ha messo forse anche al riparo dalle selezioni, perché, come chimici, eravamo considerati formalmente utili». Il Sistema parte da Argon, gas nobile o inerte, o inoperoso, dedicato agli antenati: una ricerca delle radici ma anche un’affermazione di distanza, la volontà di una metafora che lo rappresenti nel suo desiderio vitale. Come l’Argon, gli antenati ebrei dello scrittore non si sono mai combinati con nulla, talmente paghi della loro condizione da trovarsi sempre in un «atteggiamento di dignitosa astensione, di volontaria (o accettata) relegazione al margine del gran fiume della vita. Nobili, inerti e rari».

La sintesi storica che Levi dedica ai suoi antenati sparsi tra Piemonte, Spagna e Provenza è quasi una parodia, pervasa da sottile umorismo. Essere come l’Argon per lui è impossibile, lo dichiara in ogni ritratto con arguzia sopraffina. Primo Levi da scrittore vorrà assomigliare al Carbonio, ultimo elemento del Sistema che si combina con tutto in una lunga catena, per formare la vita.

Il finale è autobiografico: l’atomo di carbonio in un bicchiere di latte varca la soglia intestinale ed entra nel «torrente sanguigno», entra in una cellula nervosa, nel cervello, e accompagna la mano dello scrittore a comporre segni e volute, a imprimere la sua energia sulla carta.


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