Compattezza e convizione per continuare a governare

Piero Ignazi

Alla fine la crisi è stata superata. Per un pugno di voti il governo Conte ha ottenuto la fiducia e può continuare la sua corsa. C’è stata molta discussione sul numero dei consensi avuti in Senato dato che non raggiungevano la maggioranza assoluta di 161. Per alcuni, soprattutto dai banchi e dai media dell’opposizione, non era legittimo un governo che rimanesse sotto quella soglia tanto che hanno invitato Conte a rassegnare le dimissioni. Ma sono le consuete, inevitabili, polemiche degli oppositori. In fondo fanno il loro mestiere, anche se questa volta c’è un di più di astio dovuto alla frustrazione per una occasione non colta. In fondo, a Salvini nulla sarebbe stato più dolce di un licenziamento del suo arcinemico.

Invece sia la destra che Italia Viva devono leccarsi le ferite. La vendetta è per ora sfumata.

Quanto però il governo reggerà dipenderà dalla prossime mosse. Uno dei tanti consigli che vengono insufflati al capo del governo e ai partiti della maggioranza è quello di raccogliere per strada qualche consenso sparso per appiccicarlo insieme, formando così un altro gruppo parlamentare. È una strada percorsa più volte sia alla Camera che al Senato anche e soprattutto dalla destra che ha una faccia tosta impressionante nel denunciare, con la solita eleganza, il «mercato delle vacche» dei parlamentari.

Su questo aspetto è bene essere chiari. Un conto sono gli improvvisi passaggi di fronte come quello dei rappresentanti della destra che d’un tratto si spostano dall’opposizione al governo. Quali le ragioni di questa improvvisa conversione? Sono stati veramente illuminati sulla via di Damasco o hanno ottenuto qualche più materiale beneficio? In questi casi parlare di voltagabbana non è improprio.

Diverso sarebbe stato il caso di un rappresentante, da tempo palesemente e platealmente in dissenso con il proprio gruppo, che ha trovato l’occasione per fare il salto dall’altra parte della barricata.  E ancora differente è la situazione di quei «cani sciolti» che sono usciti da tempo dai propri gruppi di appartenenza e si sono rifugiati nel gruppo misto. In questo caso il loro passaggio ad un fronte o ad un altro è nella natura delle cose: il gruppo misto non ha colore politico.

Tuttavia, in queste occasioni ritorna d’attualità un tema importante relativo al problema della rappresentanza politica: il conflitto tra l’elezione in una lista di partito, e il divieto di mandato imperativo previsto dalla costituzione (art 67). Detto in altri termini, un parlamentare è politicamente e moralmente tenuto alla fedeltà al proprio partito in quanto, al di là di ogni altra considerazione, è entrato alle camere grazie ad esso.

Eppure sulla base di una classica interpretazione della rappresentanza, che ha nel Settecento inglese e nella Rivoluzione Francese i suoi riferimenti storico-teorici, l’eletto deve rispondere non ai propri elettori (e oggi al proprio partito) bensì alla nazione intera. Non deve agire per interesse di parte nell’assemblea rappresentativa ma curarsi degli interessi collettivi, di tutta la comunità nazionale. Ora si vede bene come qui vi sia un conflitto pressoché insanabile tra la teoria e la prassi. Se veramente gli eletti fossero liberi di decidere di volta involta sulla base delle proprie convinzioni non sarebbe possibile dar vita ad alcun governo perché il governare richiede una (certa, minima) unità di intenti. Non sarebbe possibile programmare alcunché. Si vivrebbe alla giornata nel più puro assemblearismo. Eppure si dà piena libertà all’eletto di comportarsi come meglio crede. Come mai?

Da un lato vi è un retaggio storico delle assemblee ottocentesche dove i pochi rappresentanti facevano tutti parte di una stessa classe, condividevano più o meno le stesse visioni, e si ritrovavano come in club di gentiluomini a risolvere le varie questioni con il confronto delle idee: il motto inglese era decision by deliberation, cioè decidere dopo aver discusso e trovato un accordo. Dall’altro questo richiamo all’indipendenza dell’eletto è legato all’ingresso nell’arena parlamentare dei partiti per cui gli eletti diventano dei meri esecutori del volere dei dirigenti di partito. Questo si scontrava frontalmente con la visione dei rappresentanti come portatori di interessi collettivi e non di parte.

Di questo conflitto si è discusso all’infinito ma non è mai stato risolto; ed infatti è riemerso anche in questi giorni. Però, per tornare all’attualità, come può andare avanti il governo Conte? I numeri non sono un problema perché governi di minoranza in Europa ce ne sono, e ce ne sono stati molti, soprattutto nei paesi scandinavi. Il punto è quanto politicamente coesa, e convinta, sia la coalizione.

In effetti senza le insofferenze renziane il clima potrebbe essere più concorde e i democratici potrebbero esercitare quel ruolo di guida che deriva dalla loro maggiore esperienza e competenza e così portare a compimento la maturazione dei pentastellati, arrivati in Parlamento con propositi bellicosi e poi piano piano costretti a fare i conti con la realtà. La sfida delle prossime settimane sarà nella capacità da parte del governo non di raccogliere qualche consenso bensì di offrire una immagine di compatezza e convinzione, corredata da una agenda ben definita.

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