Giuseppe Di Vagno. La storiografia e i conti con la Storia

Gianvito Mastroleo

Il 25 settembre, alle 10:30, alla Community Library della Fondazione Giuseppe Di Vagno, sarà presentato il volume, L’omicidio politico di un socialista-Giuseppe Di Vagno.
Partecipano Simona Colarizi (professore emerito Università La Sapienza), Giovanni Capurso (docente, scrittore e saggista), Vito Antonio Leuzzi (Presidente IPSAIC), Gianvito Mastroleo (Presidente onorario della Fondazione Di Vagno). Modera Fulvio Colucci (giornalista e scrittore).
Di seguito l’introduzione al volume, scritta da Gianvito Mastroleo, Presidente onorario della Fondazione Giuseppe Di Vagno


La morte di Giuseppe Di Vagno, il deputato socialista di Conversano assassinato a Mola di Bari il 25 settembre 1921, della cui morte è in corso il Centenario a cura del Comitato nazionale istituito dal Ministro della Cultura, si presta ad una duplice lettura.

Quella umana, più sentimentale e romantica del «gigante buono», come lo definisce Filippo Turati, che dalla sua città si irradia nella Puglia, nell’intero Paese e finanche negli States e che fa scrivere a Giuseppe Di Vittorio, che aveva assistito ai suoi ultimi istanti di vita, su «Puglia Rossa» del 2 ottobre 1921 «[…] tu sei risorto! Eri un uomo ed ora sei un Mito. Tu sei sempre con noi, in noi e nelle nostre battaglie, e nelle nostre vittorie».

Quella più riduttiva ma che, nonostante i primi analisti politici avessero già compreso che ci fosse anche tanto altro che aveva a che fare con la politica nazionale, ha resistito al regime e alle sue repressioni e che con le parole nobili ancora di Filippo Turati fu scolpita nella lapide marmorea apposta sulla facciata principale del Palazzo di Città di Conversano (e che fu replicata, ma sarà affissa anni dopo ed in luogo diverso dal previsto ad iniziativa de Il proletariato di Barletta); ma anche in quella deliberata, con un testo di particolare valore politico dettato da Enrico Ferri¹, dal Comune di Acquaviva delle Fonti nella seduta consiliare del 18 marzo 1922, come fa sapere Puglia Rossa del 22 marzo 1922, defissa dai fascisti e mai più ricollocata; la medesima rappresentazione che sul finire del 1943 induce i socialisti di Terra di Bari appena riorganizzatisi con la federazione provinciale a chiedere a gran voce la riapertura del processo agli assassini che nel 1922 si era concluso con l’applicazione di un’amnistia del tutto improbabile, e che poi si tramanda, di decennio in decennio, nelle sezioni socialiste ma soprattutto nelle case dei vecchi socialisti; e che con l’intitolazione di strade e piazze nelle contrade dell’intero Paese resta tuttora impressa nel sentimento, in particolare, della gente di Puglia.

Ed invece quell’assassinio, attentamente studiato e predisposto, non di derivazione localistica come fece comodo ai fascisti affermare, si prestava ad un’altra interpretazione che aveva a che fare con la genesi del fascismo, la corretta interpretazione storiografica della sanguinosa lotta politica che ne seguì; ma anche con la personalità politica del giovane Di Vagno.

Luciano Canfora, nella Lectio pronunciata il 27 maggio 2022 per la premiazione dei vincitori del Certamen Di Vagno, rimarca come la storiografia abbia ingiustamente trascurato la figura di Di Vagno ed ha sottolineato come fosse la prima volta nella quale veniva colpito a morte un Parlamentare mentre era ancora in vita la democrazia liberale, che ne avrebbe avuto ancora per un anno; mentre l’assassinio Matteotti si consuma quando ormai il fascismo ha occupato le Istituzioni e l’intero Paese.

Quello che era stato appena accennato tra la fine del 1921 e il 1922, ai primi anni ’70 fu ampiamente sviluppato da Simona Colarizi, al tempo giovanissima studiosa dell’Università di Lecce ma che negli anni si è imposta come una delle più eminenti figure della storiografia nazionale intorno al fascismo e al Socialismo, oltre che per l’analisi della società contemporanea, con il suo lavoro diventato un classico per lo studio del fascismo².

E fu così che all’interno del più generale e diffuso destino di marginalizzazione del Mezzogiorno rispetto ai processi di sviluppo, compresi quelli culturali (non senza una preordinazione partigiana, obbediente a visioni ideologiche), la prosecuzione degli studi e della ricerca storiografica solo avviata dalla Colarizi non ebbe il seguito che avrebbe meritato, in particolare nelle Università del nostro Mezzogiorno, salvo qualche rara ma ininfluente eccezione.

Basti ricordare, assieme ad altri esempi anche recenti, che nel corposo volume della collana einaudiana le Regioni dall’Unità ad oggi dedicato alla Puglia e pubblicato nel 1989 il nome di Di Vagno viene citato solo per un’inchiesta (peraltro con una data del tutto improbabile) che gli sarebbe stata affidata dal Partito Socialista a proposito di un contrasto tra i socialisti di San Severo nel foggiano e Leone Mucci: senza trovare il tempo di raccontare, almeno in una breve nota, come si usa fare, la sua biografia.

Questo fino al 2001, quando un gruppo di giovani studiosi, nell’indifferenza delle nostre università, decise che l’ottantesimo anniversario dell’assassinio di Di Vagno avrebbe dovuto sottrarsi alla retorica commemorativa e si affidò al socialista Gaetano Arfè, storico di riconosciuta autorevolezza scientifica: il quale con la sua relazione e i colloqui privati che ne seguirono segnò la via per la ripresa della ricerca storica della quale s’incaricarono studiosi non organici (in ogni senso) all’Accademia.

Infatti, fra il 2004 e il 2011, con la spinta dell’Ipsaic (Istituto per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea), la collaborazione di Ennio Corvaglia, Giulio Esposito, Vito Antonio Leuzzi, Guido Lorusso, Marco Miletti, e altri, ed il patronato della Camera dei Deputati furono prodotti e pubblicati tre volumi che hanno segnato la ripresa dell’approfondimento storiografico e avviato il superamento della non casuale marginalizzazione dalla storia della figura di Giuseppe Di Vagno: laddove della memoria non si era perduta, anzi, ne era stata mantenuta traccia sempre viva e sempre più profonda.

Ma tutto quello non bastò: gli studi andavano ripresi e proseguiti con una sistemica attività di ricerca, che bisognava recuperare e perseguire fino in fondo.

Per quanto ciò fosse stato implicitamente escluso dalle sentenze di merito pronunciate in sede di revisione del processo, nell’immaginario più diffuso il decorso del tempo era riuscito a far sopravvivere una visione prevalentemente localistica delle cause del delitto.

Non solo, ma era stato omesso di approfondire finanche il ruolo politico svolto da Giuseppe Di Vagno e se la sua personalità fosse davvero circoscritta alla Città di Conversano; né fu verificato se, come è assai più probabile, egli fosse il leader indiscusso del Partito socialista di Terra di Bari e come tale interessato a tutte le complesse vicende dei ceti dominanti nella Città capoluogo e alle contaminazioni della politica con i centri di potere, innanzitutto economico, e a combatterli; ma anche con la Stampa e quelli meno visibili, a partire dalla massoneria.

Ed ai sempre più stretti legami tra questi e il nascente fascismo, in particolare nella terra di Bari.

Infatti, l’intuizione di Simona Colarizi che il delitto Di Vagno fosse maturato all’interno della componente del fascismo agrario della Puglia, capeggiato dal cerignolano Giuseppe Caradonna, al fine di bloccare sul nascere il patto di pacificazione, andava e, tuttora, andrebbe allargata anche alla sua componente urbana: in particolare, ai centri di potere economico della Città di Bari per la cui espansione l’azione di Giuseppe Di Vagno, anche attraverso la sua azione nel Consiglio Provinciale di Palazzo San Domenico, rappresentava il più serio ostacolo.

La ragionevole chiave interpretativa, tuttavia, delle cause di quel delitto la si trova già nella dichiarazione dell’on.le Adelchi Baratono che nella commemorazione alla Camera dei Deputati, il 24 novembre 1921, a nome del Gruppo del Psi pronunzia queste parole: «L’omicidio Di Vagno è un fatto di gravità inaudita […] lungamente preparato, elaborato, portato a termine freddamente, in un regime che si chiama democrazia e di ordine contro un rappresentante del Paese è […] cosa di cui dobbiamo vergognarci in nome di questa Italia che tutti i giorni […] gettate in un abisso di ignominia (disse rivolto ai fascisti) […]».

Ma se l’analisi fosse oggi estesa fino all’assassinio di Giacomo Matteotti, che avverrà tre anni dopo, potrebbe riservare alcune sorprese.

Giuseppe Di Vagno e Giacomo Matteotti, entrambi socialisti riformisti, nonostante molte affinità nella loro vita e rispettiva formazione, hanno avuto un peso politico significativamente diverso rispetto al percorso di ciascuno interno al Partito e all’attività parlamentare: invece, sono tragicamente accomunati dallo stesso destino di morte e nell’analogo tentativo di marginalizzazione da parte della storiografia nazionale.

Del riformista Di Vagno per la storiografia è stato più facile omettere di occuparsene; anzi, per anni, addirittura dimenticarlo.

Più difficile farlo con Matteotti per il quale si preferì la sottovalutazione, fino al dileggio; l’accusa vera e propria di alimentare illusioni pacifiste («la gramigna più tenace della coscienza collettiva», secondo Gramsci) e di rappresentare un «ostacolo per un’azione di protesta della massa proletaria impedendo così la riscossa della classe operaia» con la fiducia della «rinascita di un regime democratico e parlamentare».

Sicché Gramsci nel 1924 non esita a definirlo «pellegrino del nulla […] quando consideriamo la sua vita e la sua fine in relazione con tutte le circostanze che dànno ad esse un valore non più “personale”, ma di indicazione generale e di simbolo».

Un’idea che si è tramandata fino agli anni ’70, come ricorda Maurizio degl’Innocenti³ pur senza scalfire l’immagine della vittima sacrificale, ma che si salda solo con quella di predicatore di rassegnazione.

«In una storiografia fattasi prevalentemente militante – scrive degl’Innocenti – è facile che il pregiudizio liquidatorio esenti dall’onere dell’indagine e si trasformi in uno stereotipo».

Anche per Di Vagno, se non si è potuto scalfire l’immagine del «martire»⁴ si è fatto in modo che sopravvivesse quella sorta di «drammatizzazione cinematografica» con i suoi «meccanismi semplificati che interessano più una larga platea in virtù di una forza evocativa sconosciuta alla saggistica», piuttosto che coltivare l’approfondimento storiografico e la relativa critica delle fonti.

Eppure, che la personalità di Giuseppe Di Vagno già nel 1919 avesse assunto un ruolo politico di peso all’interno del suo Partito è implicitamente confermato dal saggio di Vito Nicola Di Bari⁵ nel quale è ben ricostruito il moto rivoluzionario, una vera e propria «rivolta della fame», del novembre di quell’anno in Andria: città dominata dal latifondo e dove il proletariato, rappresentato da molte migliaia di braccianti, era organizzato tra Partito Socialista, nella sua maggioranza aderente alle tesi bordighiane, e Lega sindacale.

Nel Partito socialista sorgono contrasti tra elezionisti e astensionisti (in pratica riformisti e massimalisti) e Giuseppe Di Vagno – scrive Di Bari – è incaricato come rappresentante del Congresso nazionale del Partito per cercare di ricomporre il forte dissidio interno ai socialisti che va ben oltre, com’è ovvio, le vicende strettamente locali; mentre ai deputati Arturo Vella e Nicola Barbato viene demandato il compito di individuare e adoperarsi per conseguire gli aiuti dello Stato per alleviare le condizioni, al limite della sopravvivenza, dei braccianti in lotta.

Andava, dunque, e va tuttora studiata «l’abdicazione già evidente da parte – in particolare nella terra di Bari – dello Stato al suo compito primario: quello di gestire il monopolio della sua forza di fronte all’avanzata di forze che già si manifestavano con la pretesa del monopolio dell’autorità e di rappresentante della nazione, in virtù solo della prepotenza» e la misura in cui la soppressione a colpi di pistola di un Deputato, come non era mai accaduto, segni la svolta definitiva per il fascismo e per la storia d’Italia.

È quanto si sta riprendendo a fare, cogliendo le opportunità del programma Centenario tuttora in corso, che è ispirato dall’esigenza di capire fino in fondo quello che accadde e perché si verificò: e farlo capire, in particolare, ai giovani che frequentano i nostri licei e l’università; i quali, in verità, hanno già risposto, e con risultati positivi, attraverso la nutrita partecipazione sia ai seminari presso l’Università di Bari che al Certamen Di Vagno realizzato attraverso la Rete per il Centenario istituita nei licei della Puglia e che ha avuto come capofila il liceo Domenico Morea di Conversano: il medesimo presso il quale Giuseppe Di Vagno si formò nei primi anni del ’900.

Nel presente volume, assieme a nuove riflessioni dello stesso Leuzzi e di Giovanni Capurso, vengono riprodotti (per gentile concessione) i pregevoli lavori di Corvaglia, Leuzzi ed Esposito pubblicati nel 2011⁶ per un doveroso tributo alla memoria di Giulio Esposito ed Ennio Corvaglia prematuramente scomparsi, restituendo a quegli studi divulgazione più compiuta, e soprattutto perché, a partire da quelli e da ulteriore documentazione ritrovata, come il Fondo Fato oggi in possesso della Fondazione Di Vagno ma all’epoca del tutto sconosciuto, possa essere ripresa e ulteriormente sviluppata la ricerca storica in particolare intorno all’attività dello squadrismo pugliese.

La ragion d’essere dello squadrismo, infatti, s’identifica con l’aspirazione degli agrari a non permettere che i loro profitti fossero contenuti nell’azione sindacale delle leghe, con una strategia finalizzata all’abbattimento di ogni rappresentante delle organizzazioni di lavoratori: fra gli altri Di Vagno in terra di Bari, Giacomo Matteotti nel lontano Polesine.

Era nella strategia del fascismo agrario che per la «tranquillità fascista» non poteva esserci posto né per Di Vagno nella sua città a Conversano, tanto meno per Giacomo Matteotti nel suo Polesine.

Essendo l’«imponibile di mano d’opera» la questione essenziale, la violenza del fascismo agrario non a caso si accaniva laddove l’organizzazione aveva ottenuto i maggiori successi, colpendo militarmente i responsabili per cercare di minare «il principio di minimo di manodopera per unità di superficie»; spesso con la complicità delle forze dell’ordine che nel discorso parlamentare del 10 marzo 1921, rivolgendosi al sottosegretario agli Interni, Corradini, fa dire a Giacomo Matteotti […] eppure i camion che circolano armati si sa quali sono, appartengono agli agrari […] le organizzazioni degli agrari sono diventate organizzazioni di delinquenza […] le armi sono state depositate nelle case degli agrari».

Una situazione più o meno ugualmente diffusa nel territorio nazionale, dal Polesine di Matteotti, alla Toscana, all’Emilia Romagna e sulla quale, relativamente alla Puglia, forse sarebbe necessaria una ricerca di approfondimento: lo squadrismo, infatti, non era solo una forza armata ma, ma come scrive Emilio Gentile, una mentalità, una cultura politica, uno stile di vita.

E che si trattasse di una vera e propria strategia è confermato dalla concomitante circostanza che a Di Vagno viene impedita la permanenza nel suo paese per svolgere attività amministrativa o politica, e altrettanto accade a Matteotti nonostante fosse, addirittura, Deputato in carica.

Infatti, Di Vagno nella prima metà del 1921 è sostanzialmente costretto a non far rientro nella sua città, addirittura per il periodo elettorale (riesce a mala pena a rientrare il 30 maggio per una manifestazione di ringraziamento, cui seguono i noti fatti che lasciano sul selciato un operaio socialista e uno studente fascista); mentre a Giacomo Matteotti è fatto divieto di rientrare nel suo Polesine, dove pure aveva numerosi impegni amministrativi: e finanche nell’aprile del 1921 per seguire la preparazione delle elezioni del 15 maggio è costretto a vivere sotto falso nome tra Padova e Venezia.

Nei mesi che verranno saranno pubblicati gli Atti del Centenario, con materiali di studio assai pregevoli che offriranno ulteriori contributi.

Per mettere tutto a disposizione degli studiosi e chiunque fosse interessato a capire da dove veniamo, ma soprattutto dell’universo della Scuola che negli anni avvenire resterà interlocutore primario dei risultati delle ulteriori ricerche.

Ma soprattutto per testimoniare la passione civile e la tensione antifascista e di rifiuto contro ogni forma di violenza di cui è depositaria la Fondazione Di Vagno.

E perché si ritiene questo il modo migliore per rendere giustizia al primo martire del fascismo il cui sacrificio, scientemente voluto e organizzato, segnò la crisi definitiva della società liberale e la svolta della storia nazionale verso la dittatura.


1_All’idea socialista/ alla redenzione del popolo/ di ogni miseria materiale e morale/ Giuseppe Di Vagno/ diede/ lo studio la
propaganda l’opera ed i lavoratori lo elessero / loro rappresentante/ per questo/ il XXV settembre MCMXXI/ fu spento/ da mano omicida/ e/ da settaria illusione/ di spegnere/ con l’uomo l’idea
2_Colarizi, Dopoguerra e fascismo in Puglia (1919 -1926), Laterza, Bari 1971
3_Maurizio degl’Innocenti, Giacomo Matteotti e il socialismo riformista, Franco Angeli, 2022
4_Fulvio Colucci, Giuseppe Di Vagno – Martire socialista, Radici future, 2021
5_N. Di Bari, Il Mezzogiorno nel 1919. L’insurrezione di Andria, in Rivista di storia contemporanea, 2, 1978, p. 229.
6_Corvaglia, G. Esposito, V.A. Leuzzi (a cura di), Il processo Di Vagno. Un delitto impunito dal fascismo alla democrazia, introduzione di G. Mastroleo, prefazione di S. Colarizi, Camera dei Deputati, Roma


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