Il mito del Drive in

Giorgio Simonelli

Per gli italiani, almeno quelli dai quaranta in su Drive in è il nome di una fortunata (e geniale) trasmissione televisiva di parecchi anni fa, quando Mediaset coltivava ancora la sua vena creativa e irriverente. Per quelli sotto i quaranta che non conoscono l’esistenza del programma cult, la parola evoca solo un immaginario esotico.

Benché le cronache riferiscano di qualche esperimento casereccio (qualcosa ci fu anche a Casal Palocco negli anni Sessanta) i soli drive in amati dagli italiani sono quelli conosciuti al cinema. Due in particolare hanno un posto d’onore nel nostro immaginario. Il primo, in ordine di apparizione, è quello in cui si danno appuntamento Curt, Steve, John e Terry. Siamo in una cittadina della California, Modesto, e i quattro giovanotti si trovano per trascorrere quella che può essere l’ultima notte vissuta insieme: «del doman non v’è certezza». I loro destini, stanno per prendere strade diverse e, per alcuni, lontane dai luoghi più familiari come il parcheggio del Mel’s Drive in. Siamo negli American Graffiti di George Lucas realizzati nel 1973 ma ambientati in quel 1962, anno di svolta per la società americana, canto del cigno dell’American dream.

L’altro drive in dei nostri sogni si trova in Grease, è quello in cui Danny Zuko porta la sua amata Sally. La programmazione cinematografica non deve essere tanto male, se tra i trailer compare anche Fluido mortale, cioè nientemeno che il mitico Blob. Ma Danny non è certo un cinefilo alla Enrico Ghezzi, più che ai film è interessato alle grazie di Sally. Le sue avances, però, sono un po’ troppo spinte per la ragazza, che salta giù dalla decapottabile, gli assesta una sportellata sulle parti intime e fugge. «Non si può uscire a piedi da un drive in» le urla Danny umiliato e preoccupato.

Già! I drive in hanno delle regole un po’ complicate. Grease è del 1978, ma anche qui siamo in piena nostalgia: l’ambiente è quello della fine degli anni Cinquanta con la sua musica travolgente, i costumi in tumultuosa evoluzione, una nuova generazione di giovani che sta prendendo la scena, un mondo che già vent’anni dopo suscitava rimpianti.

Ecco: l’immagine del drive in è indissolubilmente legata a questa dimensione, a un passato un po’ mitizzato, al rimpianto per una giovinezza perduta, alla nostalgia. Per cui, con tutti gli auguri più sinceri ai vari esperimenti che stanno nascendo in varie città italiane a cominciare da quello del Parco Nord di Milano che ha aperto il 24 giugno proprio con Grease, confesso di non aver molta fiducia in questa soluzione per salvare la stagione cinematografica. E spero davvero di sbagliare.

La possibilità di far rivivere oggi in Italia quell’esperienza così lontana nel tempo e nello spazio mi pare davvero complicata: non c’è quel clima, non c’è quel tipo di pubblico e non ci sono neppure in giro tante decapottabili come la mitica Ford deluxe bianca di Danny Zuko.

Se proprio vogliamo sviluppare il consumo di cinema d’estate – cosa sacrosanta – forse è meglio curarsi delle tante e belle arene diffuse in varie località, come quella – per restare nell’immaginario cinematografico – frequentata da Jerry Calà e la sua banda di amici in Sapore di mare. In un momento difficile come questo, forse il problema non si risolve «sognando California»; meglio guardare in casa nostra alla più vicina Versilia.

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