In autunno fa caldo

Francesco Errico

Il popolo non si muove per raziocinio, ma per bisogno.
(Vincenzo Cuoco)

Il Covid-19 ci è costato finora mezzo milione di posti di lavoro e un aumento del tasso di disoccupazione che certo non ci ha sorpreso. Secondo l’OCSE nei prossimi mesi i posti di lavoro estinti potrebbero arrivare (ad essere ottimisti) ad 1.500.000, quando sarà di nuovo possibile licenziare e i sussidi come la CIG scadranno.

Per queste ragioni si parla ed anzi si teme un nuovo autunno caldo: tensioni sociali e anche disordini provocati da una situazione sociale ed economica che effettivamente nessuno può sottovalutare.

Quando ci fu l’autunno caldo vero ero un bambino e la mia prima fonte di apprendimento fu mio papà Rocco, appassionato militante socialista, iscritto alla CGIL. Di certo non ebbi l’idea di un evento da temere, anzi: una sequenza di lotte politiche e rivendicazioni sociali e salariali (certo anche con qualche tensione, non c’è dubbio) che condussero ad un Italia migliore, con più diritti e più libertà.

Al termine del periodo 1968/1970 avemmo un Paese più libero, equo e moderno, una grande partecipazione popolare (dagli operai agli studenti) con la dialettica tipica del conflitto imprenditori/lavoratori e l’intervento del Governo e del Parlamento come terzo lato del triangolo delle relazioni industriali che intervennero, per quanto di loro competenza, approvando lo Statuto dei Lavoratori.

Se così stanno le cose della Storia ed i risultati furono questi, perché temerlo un nuovo autunno caldo? Probabilmente ci vorrebbe pure. Ma le cose forse non stanno proprio così.

Anzitutto quell’autunno caldo rivendicava un cambiamento riveniente da ampi settori della società e quindi da un sentire diffuso. Qual è il sentire diffuso oggi? Su cosa è facile raccogliere un consenso od organizzare una manifestazione? La casta, i politici parassiti, la UE cattiva, la Germania, i migranti.

Nei movimenti come fu l’autunno caldo mezzo secolo fa c’erano obiettivi, avversari/interlocutori, organizzazioni sindacali che rappresentavano i lavoratori in protesta. Quali sarebbero invece oggi gli obiettivi? Chi gli interlocutori? Quale potrebbe essere il ruolo dei sindacati, che per la verità ci appaiono cauti e responsabili e poco inclini al conflitto con il Governo in carica?

Insomma non è difficile immaginare che eventuali rivendicazioni nel prossimo futuro avrebbero i soggetti di cui sopra come colpevoli, perché è colpa del Governo, della casta, della UE o del migrante, insieme alla pandemia, se non ho più un lavoro. In altre parole, non viviamo un’epoca caratterizzata da quel sano conflitto che è tipico delle relazioni industriali nei suoi obiettivi, nei suoi protagonisti, nelle sue dinamiche. Anche perché le imprese non se la passano molto meglio di lavoratori e lavoratrici.

E infatti la questione relativa ai rinnovi contrattuali appena viene sfiorata, per lasciare spazio invece, anche comprensibilmente, alle ansie ed ai timori di una perdita insostenibile di posti di lavoro.

Va anche detto che la disoccupazione giovanile resta a mio giudizio il principale problema, ma era al 35% già prima della pandemia e non c’è stata nessuna manifestazione di massa: la disoccupazione è un fenomeno sociale che non unisce chi ne è vittima, ma divide e frammenta chi non ha un lavoro.

E gli operai certo esistono ancora, come nel 1969, ma oggi non sono più una classe, o almeno ne hanno perso le coscienza e sembianze. E anche durante la crisi finanziaria globale, le rivendicazioni e le tensioni hanno avuto come bersaglio le élite, senza interlocutori precisi.

Nei prossimi mesi potremmo aspettarci qualcosa del genere, qualcosa di vago e rancoroso senza una strategia, senza quello schema che alla fine concorre a risolvere i problemi: Governo-Parlamento/imprenditori/sindacati.

I problemi ci saranno, i sussidi non sono per sempre, molte imprese si ristruttureranno ridimensionando gli organici, altre non riapriranno più. La fine della cassa integrazione generalizzata potrebbe riconsegnarci lavoratori e lavoratrici ancora più fragili e solo un grande piano di politica fiscale che incoraggi le imprese ad assumere, ma ancor di più un grande investimento in formazione professionale nei giacimenti occupazionali che pure ci sono e sono inutilizzati e in definitiva una vera e propria rivoluzione delle nostre politiche attive del lavoro potranno cominciare a dare delle risposte strutturali.

E a rendere, forse, meno caldo il prossimo autunno.

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