Rai: il calcio e la fiction

Giorgio Simonelli

«Noi appassionati di calcio abbiamo un modo ulteriore di misurare il tempo di cui con certezza sono privi gli altri individui: lo svolgimento del Campionato del mondo di calcio ogni quattro anni. Ricordo come da bambino fossi solito calcolare alla fine di uno di essi l’età che avrei compiuto all’inizio del successivo, e come entrambe le cose, l’età e l’evento mi sembrassero remoti e addirittura improbabili […] Quanto al Mondiale in sé, ogni volta che la nazionale spagnola falliva e finiva per essere eliminata, avevo l’impressione che sarebbe dovuta trascorrere un’eternità fino a quando si fosse presentata la nuova occasione per vincerlo».

Questa magnifica riflessione ovviamente non è mia, ma è tratta da Selvaggi e sentimentali, il più bel libro scritto sul calcio che raccoglie gli articoli di Javier Marìas, il grande scrittore spagnolo scomparso poche settimane fa, appassionatissimo di calcio e tifosissimo del Real Madrid.

Nella lettura di Marìas il mondiale assume una funzione rituale e come tutti i riti ha un tempo preciso. Almeno per noi che viviamo nell’emisfero settentrionale, i mondiali coincidono con l’arrivo dell’estate, la fine delle scuole, le vacanze, il prolungarsi del tempo libero, le giornate più lunghe, un clima festoso in cui le partite si vivono in compagnia, spesso in piazza davanti ai maxischermi.

Ecco, la scelta del Qatar come paese organizzatore con il conseguente spostamento della competizione in autunno inoltrato ha rotto questa magia. Certo, ci sono motivi più gravi per criticare la scelta: l’assoluta mancanza di rispetto dei diritti civili di quel paese, la corruzione che ha influenzato l’assegnazione (cosa peraltro avvenuta anche in altre occasioni), la scarsa sicurezza nella fase di costruzione degli impianti che ha causato migliaia di morti. Tutti motivi serissimi di scandalo e delusione tra i quali, ribadisco, trova posto anche lo spostamento autunnale dell’evento e la perdita dell’atmosfera di festa rituale che lo circonda tra chi lo segue da lontano.

Però, a questo punto, una volta fatto il pasticcio, occorre conviverci e le ipotesi di oscuramento totale dell’evento da parte dei media o dei singoli mi pare un’inutile velleità. Ha fatto bene la Rai ad acquisirne i costosi diritti e ha fatto benissimo a cercare di utilizzarli ampiamente e al meglio delle sue possibilità, anche dopo che la nazionale italiana è stata esclusa dalla gara e il timore di un flop di ascolti si è fatto decisamente concreto.

In realtà i primi dati vanno in tutt’altra direzione, ma non è questo il problema. La vera questione è culturale e mi permetto di affrontarla con una posizione estrema: la Rai come servizio pubblico, pur penalizzata dall’assenza della nazionale italiana, non solo aveva buone ragioni di proporre in esclusiva i mondiali ma ne aveva ancora di più.

Mi spiego: il calcio non è solo un avvenimento agonistico, una passione per alcuni incomprensibile per altri irrinunciabile che si esprime nel tifo, il calcio è un grande fenomeno culturale, un linguaggio trasversale, multietnico, cosmopolita che unisce popolazioni, classi sociali e generazioni diverse. Mostrare le partite del Senegal e del Giappone, della Danimarca e dell’Ecuador, i colori delle squadre e il loro modo di giocare, i loro tifosi sugli spalti, i calciatori e le loro storie non è solo fare spettacolo è fare informazione, divulgazione culturale, diffondere conoscenza del mondo.

Proprio ciò che compete a un servizio televisivo pubblico.

Per non parlare di ciò che può accadere attorno a una partita di calcio quando gli atleti diventano protagonisti di un episodio che entra nella vita politica, nella storia. Immaginiamo quale danno sarebbe stato, nel caso dell’oscuramento del mondiale richiesto da alcuni, il non poter assistere in diretta alla clamorosa iniziativa dei calciatori iraniani che si sono rifiutati di cantare l’inno nazionale. Un danno enorme, un vuoto informativo irreparabile, un autogol che avrebbe visto scandalizzarsi proprio coloro che in precedenza si erano battuti per l’oscuramento.

Visto che stiamo discutendo delle scelte del servizio pubblico, mi sembra doveroso fare un passo indietro, tornando a un articolo scritto per questa rubrica nel giugno scorso a proposito di Esterno notte il film (o la serie) di Marco Bellocchio su Aldo Moro.

Notavo nelle ultime righe come la distribuzione nelle sale non fosse stata particolarmente felice, penalizzando un capolavoro che avrebbe meritato un afflusso di pubblico molto più grande. Mi auguravo che la programmazione televisiva, meglio studiata e organizzata, avesse ben alto successo. Augurio pienamente soddisfatto: tre milioni circa di italiani davanti al teleschermo per tre serate successive, di fronte a una storia complessa, tragica, sconfortante, sono un risultato di non poco conto e un altro esempio di cosa dovrebbe essere e fare un servizio pubblico. Sarebbe bene che il prossimo gruppo dirigente che uscirà dai nuovi equilibri politi non lo trascurasse.

Leggi anche