Unione Europea e salario minimo

Francesco Errico

Non si può dire che il concetto di salario minimo rappresenti una novità per il nostro Paese.

Nel 1947, come noto, venne approvata la Costituzione che, all’articolo 36, stabilisce il diritto del lavoratore ad una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità della prestazione resa ed in ogni caso sufficiente ad un’esistenza libera e dignitosa per sé e per i suoi familiari. Insomma, la Costituzione ci dice già tutto.

Il dispositivo costituzionale, di carattere programmatico, non si occupa di definire in concreto una paga oraria minima, né di indicare quale potrebbe essere la fonte deputata a dettare un limite minimo di retribuzione.

La Direttiva dell’Unione Europea sul salario minimo dell’ottobre scorso, condivisibile nella sua ispirazione, non ci dice in fondo molto di diverso; anzi, sembra quasi ricalcare i principi sanciti 76 anni fa dall’articolo 36 della nostra Carta Costituzionale. Non stabilisce infatti (né poteva farlo) l’ammontare di una paga oraria minima rimandando ai singoli Stati lo strumento più efficace e incentivando la contrattazione collettiva, e quindi non necessariamente una legge, come fonte per la definizione di un salario minimo. Non proprio una novità per il nostro Paese.

La maggioranza dei Paesi dell’Unione ha già definito per legge una paga minima ritenuta equa e giusta, l’Italia no, o ancora no, insieme a pochi altri Stati Membri. Né, va detto, il dispositivo della Unione ci impone adesso di farlo.

È giusto dire che la mancanza di una legge in Italia non è frutto, per una volta, di insensibilità o noncuranza del ceto politico. Noi, rispetto ad altri Paesi, abbiamo un ordinamento sindacale fra i più solidi ed il nostro sistema non ha mai sentito veramente il bisogno di una legge che definisse un salario minimo coerente con quanto disposto dall’articolo 36 della Costituzione; i minimi salariali definiti nei contratti collettivi sembravano soddisfare questa esigenza, giacché coprivano la totalità, o quasi, dei lavoratori dipendenti.

Per questa ragione ed in linea generale, i Paesi europei che nel tempo hanno adottato una legge sul minimum wage sono quelli a più basso tasso di sindacalizzazione e con una contrattazione collettiva meno estesa, come ad esempio quelli scandinavi. E infatti la Germania, che ci assomiglia in termini di tradizione sindacale, per tanto tempo non ha avuto una legge sul salario minimo: l’ha adottata solo di recente.

Definire una paga minima, se necessario per legge, viene visto oggi, anche a livello di Unione Europea, come rimedio a una distorsione crescente: i contratti collettivi sono meno universali di una volta, ci sono nuove professioni e settori poco sindacalizzati ed una quota significativa di lavoratori non ne beneficiano: è quello che viene definito il fenomeno dei working poor. Inoltre, in particolare nel nostro Paese, i contratti collettivi sono troppi (quasi mille), di dubbia trasparenza in ordine alla rappresentatività dei sindacati che li firmano e molti di essi non in linea con il dettato dell’articolo 36: al di sotto cioè degli 8/9 €/ora che è un po’ il limite minimo ipotizzato, oggi, per assicurare una retribuzione almeno dignitosa.

Secondo i dati INPS al di sotto della soglia appena ipotizzata ci sarebbe in Italia il 13,5% dei lavoratori dipendenti. Non pochi ed è giusto occuparsene, però questo dato conferma, ancora, una notevole forza della contrattazione collettiva, in particolare quella negoziata dai sindacati maggiormente rappresentativi. Ed è probabilmente da qui, da questa forza, secondo me, che bisogna partire, a condizione di stabilire quali sono i sindacati più rappresentativi (questo sì per legge), eliminare i contratti pirata stipulati talvolta da sindacati cosiddetti gialli (per i non addetti ai lavori, quelli finti, amici dei datori di lavoro, creati dai datori di lavoro stessi) e dare, finalmente, estensione universale ai contratti collettivi di settore negoziati e firmati dalle organizzazioni sindacali che avranno titolo a farlo. In pratica, 76 anni dopo, dare piena attuazione a quanto previsto da un altro articolo della Costituzione, il 39.

Secondo alcune forze politiche (ad esempio il M5S, ma non solo), a questo provvedimento andrebbe comunque affiancata la definizione per legge di un salario minimo, rivendicazione fra le cause, almeno apparentemente, della fine anticipata della Legislatura, ignorando, o fingendo di ignorare, che parliamo di un provvedimento che non solo non può essere fatto da un giorno all’altro, ma anche e soprattutto che non può essere fatto senza il consenso ed una trattativa con le forze sindacali, storicamente titolari, insieme agli imprenditori, della definizione dei livelli salariali. Ed è quello che il Governo Draghi stava appunto facendo.

Dunque, al di là dello sconcertante spettacolo degli strumentali ultimatum al Governo a cui abbiamo assistito nella Legislatura appena conclusa, il salario minimo per legge è un intervento del Parlamento che incide sulla definizione dei contenuti di un contratto stipulato fra privati, dettando una condizione e sottraendola alla libera definizione delle parti. È quindi un, legittimo, intervento del Parlamento in presenza di una distorsione di carattere sociale all’interno di un rapporto fra soggetti privati.

Un atto di giustizia sociale per i pro-labour, una iattura per i liberisti. Ma se vogliamo non solo per i liberisti: tradizionale è la refrattarietà dei sindacati italiani stessi ad una legge; in presenza di una fonte superiore verrebbe in parte meno, o ne risulterebbe comunque indebolito, il ruolo storico del sindacalismo: definire attraverso la contrattazione collettiva livelli retributivi il più possibile vantaggiosi per i lavoratori di ciascun settore.

Resta da vedere le decisioni che assumeranno i nuovi Governo e Parlamento, il che non è ancora chiaro.

Potrebbe, il salario minimo per legge, avere paradossalmente un effetto depressivo sui livelli salariali? C’è chi lo pensa. L’imprenditore potrebbe essere tentato di usarlo per aggirare la contrattazione ed il confronto con le forze sindacali, in particolare per i livelli più bassi, applicando loro il salario minimo e dunque rispettando comunque la legge.

Questa osservazione ha una logica, ma a mio giudizio una logica astratta. Sarebbe conveniente per un imprenditore deprimere le retribuzioni, indispettire i sindacati, ignorare la professionalità dei dipendenti, che sarebbero portati a cercare un impiego altrove? È lecito dubitarne e infatti in Germania questo fenomeno non si è verificato.

Ma il problema delle basse retribuzioni nel nostro Paese è ben più ampio ed ho l’impressione che si pensi che l’introduzione di un minimo retributivo per legge possa risolvere più problemi di quanti non sia in realtà in grado di risolvere.

Non si può ignorare che in Italia non c’è solo il problema del salario minimo, ma quello dei salari più in generale, mediamente più bassi della media europea. Le ragioni sono tante, anche ben conosciute, sulle quali non mi dilungo qui. Il vero problema è dunque quello di elevare il livello generale delle retribuzioni di lavoratori e lavoratrici italiani e non sarà una soglia minima a farle crescere.

La definizione dei livelli retributivi è il frutto di un periodico negoziato, a volte anche conflittuale e lungo, fra imprenditori e sindacati. Il loro livello, per ogni settore produttivo, corrisponde a quello che le organizzazioni sindacali riescono ad ottenere ed è quello che gli imprenditori sono in condizione di poter concedere. È in fondo quella la «giusta retribuzione», la abbiamo già ed il suo livello dipende dal momento storico, dall’andamento dell’economia, delle differenze, non dimentichiamolo, fra i vari settori, quelli più produttivi con salari più alti e quelli meno produttivi con salari più bassi.

Le retribuzioni basse sono un problema complesso che riflette lo stato delle nostre relazioni industriali e la qualità del nostro mercato del lavoro. Definirle per legge, almeno per i salari più bassi (cosa moralmente condividibile), non intaccherebbe le distorsioni e i ritardi del sistema.

La definizione di una retribuzione, a parte eccezioni, deve restare una questione fra privati, con una maggiore connessione con la produttività del lavoro da una parte e con quell’atto di equità che sarebbe la piena attuazione dell’art.39 della Costituzione, dall’altra.

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