Walter Benjamin. L’angelo della storia

Bruno Arpaia

La foto, quella foto, gliela scattò Gisèle Freund nel 1937, ma io la vidi per la prima volta una trentina d’anni fa. Walter Benjamin era ritratto seduto al suo tavolo alla Biblioteca Nazionale di Parigi, con una stilografica in mano e il braccio sinistro impegnato a tenere ferme le pagine di un libro. Lo tradivano le guance, quelle di un uomo che ha appena superato la mezz’età, ma lo ha fatto a fatica, trascinandosi dietro un ostinato fardello di stanchezza. Lo tradiva lo sguardo, insieme deciso e smarrito, lo sguardo di chi prende la realtà troppo alla lettera e quanto più si sforza di capirla tanto più se ne allontana.

Fu allora, davanti a quella foto, davanti a quello sguardo, che seppi che avrei dovuto raccontare la storia di Walter Benjamin, la storia di un ebreo tedesco in esilio a Parigi che si suicidò sulla frontiera tra la Francia e la Spagna cercando di sfuggire ai nazisti, la storia di uno dei più bizzarri e geniali intellettuali del secolo scorso, morto in un alberghetto di Port-Bou giusto ottant’anni fa, il 26 settembre del 1940, portando con sé il mistero di un manoscritto a cui teneva più della vita e che non fu mai ritrovato.

Quella storia sono poi riuscito a racchiuderla in un romanzo pubblicato quasi vent’anni fa, intitolato L’angelo della storia, che ha avuto molte edizioni ed è stato pubblicato in una dozzina di lingue. Lo so. Se volessi darmi un po’ di arie, potrei dire di essere stato attratto dalle opere di Benjamin, dal suo pensiero capace di insolubili oscurità, di profezie smentite, ma anche e soprattutto di geniali e straordinarie capacità di aperture al futuro, andando vigorosamente controcorrente: e sarebbe vero, almeno in parte. Eppure, molto benjaminianamente, devo confessare che furono i dettagli, i «cascami», della sua esistenza ad attrarmi sul serio. Dio è nel dettaglio, diceva Flaubert. Per un narratore, che è una cosa diversa dal critico o dallo storico, sono importantissimi gli elementi concreti, spesso minimi, che contribuiscono a costruire le storie personali. Così, oltre a quella foto, furono altri gli elementi che mi hanno stranamente legato a Benjamin e che, in qualche modo, mi hanno scelto: per esempio, il fatto che ci mise dieci anni per concedere al suo miglior amico, Gershom Sholem, il privilegio di dargli del tu; oppure la smania di misteriosità che gli faceva erigere barriere di riservatezza attorno alle cose più futili e innocue; oppure, ancora, il suo continuo fare a pugni con la sfortuna, con «l’ometto gobbo» delle sue filastrocche infantili che lo perseguitava e che infine lo raggiunse su quella frontiera maledetta.

Frammenti, scarti di una vita: ma nessuno più di Benjamin avrebbe saputo ricostruire il senso della sua stessa storia a partire da quei cascami, dal «muc­chio di cocci» che costituiva la sua esistenza. Era un filosofo che pensava come un romanziere. Eppure il vecchio Benj, come lo chiamavano gli esiliati tedeschi a Parigi, era anche un uomo assolutamente inadatto alla vita pratica, sempre a disagio nei tempi duri che gli era toccato vivere. Così, durante i sette anni del suo esilio a Parigi, trascorsi in case malandate e in rumorose stanze in subaffitto, sempre alle prese con la necessità di mettere insieme il pranzo con la cena, Benjamin aveva preferito starsene il più possibile rinchiuso nella Biblioteca Nazionale, compulsando libri e vecchie stampe, quasi al riparo dal mondo che cominciava a bruciare. Ed era rimasto lì anche quando, con i nazisti alle porte di Parigi, la sua vita si era fatta più concitata, in bilico sul disastro. Solo alla fine si era rassegnato a muoversi, fuggendo prima a Lourdes e poi a Marsiglia, in cerca di un imbarco, di un visto, di una nave che lo portasse in salvo negli Stati Uniti.

Troppo tardi. E troppo poco movimento per un personaggio di romanzo, almeno di un romanzo come quelli che piacciono a me, zeppi di fatti e di storie. Per anni, allora, mentre nella mia testa si accumulavano dettagli su dettagli della vita di Benjamin, continuai a cercare qualcuno che gli facesse da contraltare, da deuteragonista. Alla fine lo trovai nelle Asturie, nel nord della Spagna. Lo trovai nei racconti dello scrittore messicano Paco Ignacio Taibo II, nelle storie dei suoi nonni che avevano combattuto nella Rivoluzione del 1934 e nella Guerra civile, che avevano fatto i contrabbandieri di armi per la Repubblica ed erano finiti prima nei campi di concentramento francesi e poi esuli in Messico. Lo trovai in decine di libri e in migliaia di pagine di fotocopie con le testimonianze dei reduci di quelle battaglie e di quelle sconfitte, lo trovai in quattro o cinque vecchietti che mi raccontarono di prima mano le vicende che avevano vissuto sessant’anni prima. Fu così che nacque Laureano Mahojo, l’altro protagonista del mio libro, l’altro capo dello spago, l’altra faccia dell’Europa che il nazismo e la modernità avevano spazzato via. Benjamin incarnava una generazione di intellettuali che a sedici anni aveva letto tutto Kant e tutto Hegel e che aveva bruciato le proprie energie nelle vampate ideali della prima metà del secolo; Laureano era il rappresentante di quegli uomini che, forse per l’ultima volta nella storia, avevano creduto che per i propri ideali si potesse vivere e perfino morire, era uno di quelli che proprio non riuscivano a separare il pensiero dall’azione, uno di quelli a cui, diversamente da oggi, piaceva ancora dire noi.

Restava il problema di metterli insieme, di farli convivere nelle pagine di un romanzo. Fu una notte, durante un viaggio in treno verso Napoli, che mi venne l’illuminazione. Niente ispirazione: non ci credo. Scrivere è un mestiere, un faticoso artigianato, checché ne pensino i vecchi e nuovi romantici. Però è vero che uno dei pochi privilegi di uno scrittore è quello di vivere momenti bellissimi, purtroppo molto, molto rari: momenti in cui è come se di colpo ti si squarciasse un velo sulle storie che vorresti raccontare, sui personaggi che ti ronzano in testa in forma vaga, confusa. All’improvviso diventano chiari, netti, ti sembra di conoscerli da anni e anni e di averli accanto in carne e ossa. A me accadde nella cuccetta del treno da Milano a Napoli: in uno stato di inquietissimo dormiveglia, vidi nitidamente quei due parlare fitto fitto sui Pirenei, la notte in cui Benjamin rimase solo durante la sua avventurosa fuga prima di suicidarsi. Erano lì, nel buio, Laureano e il vecchio Benj, e si parlavano. Dopo, si è trattato solo di scriverla, quella storia.

Lo so. È una storia lontana nel tempo, una storia che si svolge in un’Europa remota che non esiste più. Eppure, in un’epoca di nazionalismi esasperati che tornano a galla come tanti anni fa, in un’epoca di fughe, guerre, pandemie, sconvolgimenti climatici e migrazioni di massa, in un’epoca in cui la «deculturizzazione» imperante impedisce all’umanità di fornire risposte all’altezza delle complesse sfide della realtà, le figure e le vicende di Walter Benjamin e di Laureano Mahojo a me sembrano ancora attualissime e in grado di farci riflettere sui nostri destini. Ne abbiamo più che mai bisogno.

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