Commiato (i) dalla sinistra

Giovanna Casadio

Vale per tutti la testimonianza di Achille Occhetto, che quando gli si chiede cosa ha provato il giorno in cui lasciò la guida della sua creatura, quel Pds nato dal Pci con la svolta della Bolognina, prima si sottrae, quindi cita Virgilio. Il passo in cui Enea è chiamato a rispondere a Didone del suo peregrinare e dei tanti commiati, dopo la caduta di Troia: «Infandum, regina, iubes renovare dolorem». Così Occhetto a proposito del 13 giugno del 1991 in cui lasciò la guida del Pds, ripete: «Mi costringi, o regina, a rinnovare un indicibile dolore».

Di commiati è piena la storia politica. Sempre dolorosi. Ma la velocità con cui si sono consumati nell’ultimo decennio nella sinistra italiana è forse nuova. L’addio di Nicola Zingaretti con un post su Facebook – 24 mesi dopo le primarie che lo elessero leader dem – è l’ultimo in ordine di tempo.

Una accelerazione di strappi, scissioni, addii dei leader politici di turno ha colpito il partito italiano nato con la mission di raccogliere e ammodernare il fronte democratico e progressista. Era il 2007 e il partito si chiama Pd.

E se anche non piacque a quella sinistra – da Mussi a Vendola – che ne criticava la «fusione a freddo» di culture troppo diverse per amalgamarsi (quella post comunista, socialista, popolare e liberal democratica), e che quindi velocemente si accommiatò, sembrava avere il vento in poppa e non con il karma dei commiati.

Invece un martedì di febbraio di appena due anni dopo la fondazione, nel 2009, esattamente il 17, detto poi il «martedì nero», Walter Veltroni – primo segretario e strenuo sostenitore della necessità che il Pd venisse alla luce – salutò in un drammatico coordinamento del partito, che arrivava dopo un’altalena di alti e bassi: grande seguito nella mega manifestazione al Circo Massimo e però la sconfitta alla Regionali in Sardegna; un accordo sulla legge elettorale e un fuoco di fila di «distinguo» e contestazioni a cominciare da D’Alema. E insomma quel commiato fu una Caporetto, alla quale Veltroni provò a dare un senso, dicendo che il suo addio avrebbe potuto «aiutare il Pd. Il potere è un mezzo e non un fine, l’ho detto e ci credo. Conta molto come si esce di scena. Come? Come sto facendo io».

C’erano molti cronisti quel giorno ad attendere notizie davanti al Nazareno, la sede del Pd, e telecamere, microfoni. Un gruppetto di studentesse di passaggio chiese: «Cosa c’è, cosa succede?». «Si sta dimettendo Veltroni», venne risposto. «Ah, mi credevo qualcuno di famoso!», replicò la più curiosa perdendo interesse. Perché gli affari dei partiti non sempre appassionano.

Nel mentre, il segretario ormai dimesso stava salutando i compagni e amici, i fratelli coltelli con parole di fuoco: «Non fate mai più a chi verrà dopo, quello che avete fatto a me».  Ma anche, com’era stile di Veltroni, giurando che «l’impegno non finisce, dobbiamo costruire il partito, mi raccomando». Lui certo ci sarebbe stato. Si è dedicato ad altro: libri, cinema, tv e il giornalismo antica passione. Nelle interviste televisive recenti, nei sottopancia è scritto: Walter Veltroni, giornalista e regista. Per dire, quanto definitivo è stato il suo commiato dalla politica.

Così come quello di Francesco Rutelli, che è stato presidente della Margherita e fondatore del Pd: prima ha lasciato i Dem per creare una forza più moderata Alleanza per l’Italia, e poi si è accomiatato anche lui dalla politica. Ora è presidente di Anica, l’associazione delle industrie cinematografiche. Se un rimpianto Rutelli ha, sono i due mandati da sindaco della Capitale. Nel 2009, al Pd disse arrivederci: se gli amici popolari – da Dario Franceschini a Beppe Fioroni – si fossero convinti a dare la scalata a un partito che Rutelli giudicava avviato verso il recinto della sinistra-sinistra con il neo segretario Pierluigi Bersani, allora forse se ne poteva riparlare.

Quando il dentifricio esce dal tubetto – per dirla con Romano Prodi a proposito dell’irreversibilità degli eventi – è difficile rimettercelo dentro. Di ritorno non se ne parlò più.

Il commiato di Bersani, solido e tenace emiliano di Bettola, arrivò come una lenta deriva. Aveva cercato di stringere i bulloni alla ditta, per indicare un Pd laburista e di sinistra. Era arrivato a un passo da Palazzo Chigi, sopravvivendo persino allo scherno dei 5Stelle in un incontro in streaming anche con Beppe Grillo, quando la sorte si rovesciò.  Dalla premiership dovette accomiatarsi prima di averla raggiunta – al suo posto andò Enrico Letta. Dal partito l’addio fu in due round. Come segretario nel 2013. Per scissione e per fondare un partito nel 2017. Da segretario se ne andò la sera stessa dei 101 franchi tiratori che impallinarono la corsa per il Quirinale di Prodi. Disse Bersani: «Tra di noi, uno su quattro ha tradito, abbiamo prodotto una vicenda di una gravità assoluta…». Mollò, però anche lui garantendo: «Nel Pd resterò sempre, che faccia il capitano o il mozzo». Da mozzo invece scappò nel febbraio del 2017, rimarcando. «Mia moglie e le mie figlie mi hanno detto: era ora». Si era insomma attardato anche troppo in una convivenza con Matteo Renzi, nel frattempo diventato segretario.

Saldamente in sella Matteo Renzi, il rottamatore che voleva scardinare il ceto politico piddì, era rimasto a dispetto di ripetuti commiati. Nel 2012 si butta nella mischia del centrosinistra per la premiership: vince Bersani. Nel 2013 invece la spunta su Bersani ed è eletto segretario. Premier ci diventa sfrattando con un abile colpo di mano Enrico Letta da Palazzo Chigi. Si accomiaterà dal governo nel 2016 dopo il risultato catastrofico del referendum sulla riforma della Costituzione da lui voluta.

Ma formidabile è la sua tenuta nel Pd. Dà l’addio come segretario nel febbraio del 2017 con noncuranza: «Nessuna fuga, deciderà la direzione, io vado a sciare». Già a maggio viene rieletto. Infine si accommiata dal Nazareno, dopo la sconfitta alle politiche del 4 marzo 2018.  E lì comincia un balletto sulle dimissioni congelate per bloccare gli inciuci con i 5Stelle. Quando se ne va dichiara che il Pd è la sua casa e che semplicemente farà il senatore. Ci vuole un altro governo, che proprio lui contribuisce a fare nascere, guidato da Giuseppe Conte e in alleanza con i grillini, per convincerlo che la cosa migliore è accomiatarsi dal Pd. Il partito non piange.

In una cronaca di Francesco Merlo per la Repubblica, la reazione dem è descritta così: «È la prima scissione allegra, goliardica nella lunga storia della sinistra che è storia di guerre civili e singhiozzi, lacrime e coltelli: Renzi se nnè ghiuto e soli ci ha lasciato». È il 16 settembre del 2019. Spavaldamente dichiara: «Lascio il Pd, sarà un bene per tutti», e nasce Italia Viva.

Da un commiato a un altro si arriva a quello di Zingaretti, capitolo da scrivere ancora. Nel mezzo vanno ricordati i commiati di Pippo Civati, leader di Possibile e ora editore; di Stefano Fassina che passa con i bersaniani, quindi con i vendoliani, adesso senza partito; di Carlo Calenda che prese la tessera del Pd quando subì la batosta alle politiche del 2018 e si è accomiatato nel 2019, già eletto eurodeputato nelle file democratiche, per dare alla luce Azione. I commiati nella sinistra sono sempre dietro l’angolo.

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