La storia siamo noi: il cinema italiano e il 25 aprile

Giorgio Simonelli

Il legame che unisce il cinema italiano alla rappresentazione della lotta di liberazione dal nazifascismo è un filo lunghissimo, che parte dal 1945 e arriva fino al primo decennio del nuovo secolo. Ma non è un filo uniforme: forte e consistente in alcuni periodi, diventa in altri più sottile e fragile, legato alle temperie politico-culturali che hanno caratterizzato le stagioni dell’Italia repubblicana e che hanno influenzato la lettura storica della Resistenza.

La storia inizia come per miracolo nel 1945 quando, in contemporanea con gli avvenimenti stessi, il cinema italiano ne propone un’immediata lettura. C’è un film documentario a più mani, firmato da Mario Serandrei, Giuseppe De Santis, Marcello Pagliero e Luchino Visconti, il cui titolo, Giorni di gloria, rivela chiaramente quale sia la visione che l’opera propone della Resistenza: il riscatto di una nazione concorde ed eroica davanti al «crepuscolo degli dei falsi e feroci».

C’è l’opera che viene riconosciuta come iniziatrice e capolavoro di questo filone, Roma città aperta, e quella che, a mio parere, per il suo sguardo che spazia su tutta l’Italia, è un capolavoro ancor più grande, Paisà. C’è un lavoro collettivo, Il sole sorge ancora, piuttosto singolare, in cui gli sceneggiatori e il regista (Giuseppe De Santis, Carlo Lizzani, Guido Aristarco, Gillo Pontecorvo, Aldo Vergano) sono anche attori, interpretando in chiave epica racconti raccolti da alcune inchieste sul campo. Persino un vecchio regista di commedie come Mario Camerini si lascia coinvolgere dal nuovo clima, costruendo con Due lettere anonime una storia in cui brilla una figura di donna partigiana.

Anche il cinema vive quel momento di cui parla Italo Calvino nella prefazione al Sentiero dei nidi di ragno, in cui l’urgenza di raccontare le mille peripezie, i mille drammi che avevano cambiato una generazione di italiani, ispira scrittori e registi.

Il filo si spezza con il passaggio al successivo decennio. Troppo facile spiegare l’esaurirsi dell’attenzione per le vicende resistenziali con il cambio di clima politico dopo il 1948, la fine dei governi di unità nazionale, l’inizio del centrismo moderato, i nuovi equilibri internazionali. In realtà i cambiamenti sono più profondi, nelle grandi trasformazioni sociali, nei nuovi modelli della cultura popolare, nelle prime confuse manifestazioni del consumismo, come ci ha raccontato, tanti anni dopo, con straordinaria ironia Maurizio Nichetti in Ladri di saponette.  Dopo l’ultimo sussulto di epica resistenziale con Achtung banditi! di Carlo Lizzani all’inizio del decennio, il cinema italiano degli anni Cinquanta guarda altrove, oltre la Resistenza, ai nuovi problemi, ai nuovi desideri di evasione.

Tutto cambia nuovamente dieci anni dopo. Anche in questo caso si tende a spiegare il ritorno della Resistenza nel cinema con il mutamento del clima politico: le fine del centrismo, le aperture a sinistra, la distensione nella guerra fredda. In più c’è il tentativo di legittimazione del neofascismo con il governo Tambroni e la sua caduta dopo i moti genovesi: una nuova generazione scesa in piazza in nome dell’antifascismo. Convenzionalmente si fa cominciare questa nuova fase nel 1959, con un film dello stesso regista che l’aveva aperta quindici anni prima, Il generale Della Rovere di Roberto Rossellini. Ma il vero punto di svolta è il prezioso gioiello di un esordiente. Florestano Vancini, con La lunga notte del ’43, per la prima volta affronta amaramente il tema attualissimo, per quegli anni, della perdita di memoria, della cancellazione delle responsabilità dei terribili avvenimenti della guerra civile.

Da lì in avanti, nell’arco di tre stagioni, ci sarà un’improvvisa, ampia fioritura di film che rievocano le vicende del periodo: Il gobbo di Lizzani, Kapò di Pontecorvo, Tiro al piccione di Giuliano Montaldo, Un giorno da leoni e Le quattro giornate di Napoli di Nanni Loy, La ragazza di Bube di Luigi Comencini, Il terrorista di Gianfranco De Bosio. A questi si aggiungono i film che hanno declinato il tema nella forma della commedia con uno sguardo molto originale e un certo anticonformismo, come l’amatissimo Tutti a casa. Il revival del cinema resistenziale, così vasto da coinvolgere anche Totò (I due colonnelli, I due marescialli), si esaurisce nei primi anni del decennio.

L’ondata successiva, quella degli anni Settanta, presenta caratteri prevalenti di altro tipo. Solo Gianni Puccini con I sette fratelli Cervi del 1968 continua il lavoro di ricostruzione storica; negli altri più celebri casi l’interesse dei registi non sembra più di tipo storiografico, ma culturale. Il tema non è più la Resistenza ma la sua narrazione nella letteratura, la mediazione letteraria. Una «rilettura della lettura» che riguarda Il giardino dei Finzi Contini di Vittorio De Sica, L’Agnese va a morire di Montaldo e La strategia del ragno, il più bel film di Bernardo Bertolucci, in cui è un racconto di Jorge Luis Borges a guidare il regista nei labirinti dell’antifascismo padano.

Infine, dopo anni in cui l’attenzione per la Resistenza, pur non priva di momenti significativi (Hotel Meina di Lizzani, L’uomo che verrà di Giorgio Diritti), si fa sempre più sporadica per il cinema: all’inizio del nuovo secolo il testimone viene raccolto dalla televisione. É la fiction che va alla ricerca di nuovi scenari, di storie non ancora raccontate, di figure trascurate ma fondamentali per il salvataggio degli ebrei perseguitati. Si comincia nel 2002 con Storie di guerra e di amicizia e con il fortunatissimo Perlasca, a cui seguono Cefalonia (2005) e nel 2006 Gino Bartali e Don Pappagallo. Non mancano scelte che danno spazio a letture revisionistiche o alla scoperta di zone che la storiografia ha lasciato in ombra, come la non troppo felice versione di Il sangue dei vinti realizzata da Michele Placido e il più interessante Il cuore nel pozzo che Alberto Negrin ha dedicato alla vicenda delle foibe.

Ma il più memorabile intervento televisivo sul tema della Resistenza non nasce dalla fiction bensì in un ambito a cavallo tra lo spettacolo e l’informazione. Era la sera del 25 aprile del 2015, quando Fabio Fazio condusse un evento speciale per il settantennale, in cui dalla Piazza del Quirinale a Roma si collegava con alcuni luoghi simbolo della lotta di liberazione. Un po’ teatro, un po’ concerto e un po’ divulgazione storica, uno dei momenti più intensi della storia della televisione. Nel corso della trasmissione andò in onda un video di pochi minuti che mostrava alcuni tra i più famosi attori del cinema italiano che rendevano omaggio alle lapidi dedicate in varie città alla memoria delle vittime della Resistenza. Il commento sonoro era affidato a La storia siamo noi di Francesco De Gregori. Qualcuno in questi giorni ha avuto la bellissima idea di ripubblicare il video sui social network.

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