Marco Pantani, il Pantadattilo

Giorgio Simonelli

Marco Pantani è morto da sedici anni. La sua ultima vittoria risale a venti anni fa, al Tour de France del 2000 quando staccò Lance Armstrong nella salita di Courchevel. Dunque, un giovane di vent’anni nel 2020 non può che conoscerlo solo attraverso i ricordi e le rievocazioni dei più vecchi. Eppure, non è raro ancor oggi vedere sulle strade provinciali qualcuno che pedala con in testa una bandana e un pizzetto tinto di biondo sul mento, alla maniera del pirata.

Forse non sono più numerosi come un tempo quando questa sembrava la divisa d’ordinanza di ogni ciclista dilettante, ma l’immagine simbolo di Pantani è ancora viva tra noi e il suo ricordo non è mai stato offuscato. Senza nulla togliere a coloro che hanno vinto dopo di lui e anche più di lui, Pantani resta l’ultimo eroe del ciclismo. Lo colloca in questa dimensione anche il suo destino tragico, quello di una morte precoce arrivata dopo molte sofferenze esistenziali, un destino che lo accomuna ad altri miti del ciclismo. Su tutti brilla la stella di Fausto Coppi, ma non si possono dimenticare altri eroi perdenti come Roger Rivière o Luis Ocaña a cui Gianni Mura fa dedicato pagine memorabili.

Nell’anno del cinquantenario della nascita del pirata non sono mancate le celebrazioni e nei giorni in cui il Giro gli dedicava una tappa con partenza e arrivo nella sua Cesenatico, un percorso che si snodava tra le sue salite e un’ascesa a Piancavallo, teatro di una delle sue più memorabili imprese, è uscito nelle sale un film dal titolo molto esplicito, Il caso Pantani. L’omicidio di un campione.  

Il film di Domenico Ciolfi non rinuncia a cercare qualche originalità sul piano drammaturgico. Affida, per esempio, il ruolo del protagonista a tre attori diversi corrispondenti ai tre momenti della vita di Pantani, come si trattasse di tre personaggi differenti, sottolineando la spaccatura della sua identità; suggerisce un’originale lettura della caduta nella tragica confusione della droga come di una reazione masochistica all’accusa di essere un drogato, nell’accezione sportiva della parola.

Ma l’intento più chiaro è quello di sostenere una tesi, quella dell’omicidio, in una sorta di film inchiesta. E qui il lavoro di Ciolfi forse sbanda un poco, perché in una durata molto ampia, il racconto di vicende assai note della vita di Pantani – la famiglia, gli amori, le amicizie, il rapporto intenso con la manager e con il direttore sportivo, le cattive compagnie maschili e femminili – ruba spazio alle informazioni meno conosciute su un caso, come recita il titolo, sugli aspetti legali, giudiziari, politici della tragedia. Insomma, è come se pur avendo in mano diversi assi, il regista si fosse deciso a giocarli solo a spazzi e nel finale.

L’omicidio di Pantani ha secondo Ciolfi due fasi. La seconda, quella fisica, la terribile giornata del 14 febbraio del 2004 è piena di misteri e di incongruenze. Le elenca la voce fuori campo di Pannofino nelle vesti del giudice che rilegge tra lo stupore e lo scetticismo le carte dell’inchiesta. Ci sono troppe cose strane. Pantani non risulta essere mai uscito per giorni dal residence Le rose in cui si è rifugiato e invece la notte precedente la sua morte ha dormito anche in un altro albergo dove incontrava le sue ambigue amicizie, tra cui l’escort che frequentava da tempo. In realtà le testimonianze del personale del residence che non ha mai visto il campione uscire non tengono conto di un’uscita secondaria dell’edificio. Gli oggetti dell’arredo della sua camera che Pantani avrebbe distrutto nel corso del suo delirio (tra cui un lavandino) risultano intatti, posati ad arte sul pavimento per simulare un disordine totale. A tutto si aggiunge un particolare quasi comico: la carta di un cornetto gelato trovata in un cestino e che il verbale della polizia giustifica come l’esito della distrazione di un agente che ha consumato il gelato e buttato l’involucro nel corso del sopralluogo. Un materiale interessante, scottante e anche convincente della tesi dell’omicidio che nel film arriva però molto tardi, un po’ stancamente ed eccessivamente concentrato.

Ma ancor più interessanti sono le rivelazioni che il film fa a proposito del primo omicidio, quello psicologico iniziato con il famoso controllo antidoping del 5 giugno 1999 a Madonna di Campiglio. Qui la tesi è, per la verità, estrema fino all’incredibile. All’origine di tutto ci sarebbe un’iniziativa della criminalità organizzata di stampo camorristico che dal carcere ordisce un piano per eliminare Pantani dal Giro e intascare i cospicui guadagni di una scommessa su un diverso vincitore della corsa, cosa in quel momento non solo improbabile, ma impossibile. Ma se i mandanti, come ha rivelato più tardi Renato Vallanzasca sono dei loschi figuri, è sulle figure degli esecutori che il film concentra le sue attenzioni con gli esiti migliori. Ci sono i medici della federazione, corrotti e arroganti che, quando sono chiamati a rispondere alle domande del giudice del tribunale di Trento come testimoni nel processo a carico di Pantani per frode sportiva, si contraddicono, balbettano, si rifugiano nei «non ricordo». C’è il mondo della Gazzetta dello sport, il giornale organizzatore del Giro, con un direttore che ha preso in antipatia Pantani per un suo rifiuto a collaborare a un’iniziativa benefica e, alla notizia della sua positività al controllo dell’ematocrito, lo scarica immediatamente, dichiarando di sentirsi tradito, senza manifestare alcun dubbio circa le procedure. E c’è il vicedirettore che in una scena drammatica fa visita Pantani, chiuso da tempo nella sua villa, per fargli una proposta assurda: confessare il suo errore e diventare testimonial della battaglia contro il doping che sta avvelenando il ciclismo.

Pantani, certo della sua innocenza e unicamente preso dal desiderio di affermala nella pubblica opinione, imbraccia il suo fucile da caccia e allontana l’incauto ospite. È la scena madre del film, non solo per la sua forza drammatica, ma perché riassume in pochi istanti la vera natura del caso Pantani, l’ipocrisia, il manzoniano «troncare, sopire» con cui le istituzioni hanno pensato di risolverlo e il rifiuto di accettare lo squallido compromesso che è costato la vita al Pirata. Su questo versante il film di Ciolfi è estremo e estremamente coraggioso: sostiene la sua tesi, fa nomi e cognomi, individua e denuncia le responsabilità. Se lo avesse fatto con maggiore continuità, tenendo ferma la linea del film inchiesta gliene saremmo stati ancor più grati.

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