Quel pomeriggio che spararono a Giuseppe Di Vagno

Cesare Preti

Mola di Bari, sabato 24 settembre 1921. Sono da poco passate le 18,30. L’onorevole Giuseppe Di Vagno, il “gigante buono”, così lo chiamano i compagni della Terra di Bari, eletto deputato da poco più di quattro mesi nelle liste del Partito Socialista Italiano, sta percorrendo a piedi via Loreto (oggi, via Di Vagno). Lì un calesse lo attende per portarlo nella sua città natale, la non lontana Conversano. È avvocato penalista, ha trentadue anni ed una moglie in attesa di un figlio che non conoscerà mai. Ha appena terminato un comizio, tenuto per l’inaugurazione della bandiera del circolo socialista, come recita il manifesto affisso sui muri della cittadina costiera. Un gruppo di almeno otto sconosciuti, ragazzi giovanissimi giunti da Conversano, tutti aderenti al Fascio di combattimento, gli si avvicina da dietro. All’altezza del numero civico 40, uno dei ragazzi estrae una pistola, qualcuno grida «spara!». Il deputato, colpito a morte alla schiena per due volte, riesce a stento a trascinarsi dentro un piccolo negozio. Le grida e gli strepiti di chi ha assistito alla scena giungono fino alla piazza, lì vicino. Gli altri squadristi sparano all’impazzata tutt’intorno e lanciano perfino una bomba: vogliono tenere lontano i compagni di Di Vagno, che si stanno radunando, ed assicurarsi così una via di fuga. Alcuni medici, con la massima cautela, portano l’onorevole socialista nel piccolo ospedale locale, per un disperato tentativo di operarlo e salvargli la vita. Ma invano. Dopo una lunga agonia, alle 12,45 della mattina dopo, domenica 25 settembre, la morte lo raggiunge.

Questa la scena di quel lontano settembre. In un impeto di retorica, qualche giorno dopo su Puglia Rossa, il giornale socialista della Terra di Bari, Giuseppe Di Vittorio, raccontando le ultime ore di vita dell’amico e compagno di tante lotte, scriverà: «Non si sono accorti i miserabili che la soppressione del tuo corpo ha preparato la tua resurrezione […] Tu sei sempre con noi, nelle nostre battaglie e nelle nostre vittorie». Parole commosse di chi, rischiando la vita nell’opporsi ad un fascismo sempre più tracotante, vedeva le proprie fila assottigliarsi con continuità, ogni giorno. Ma furono Antonio Gramsci su l’Ordine Nuovo e, prima di lui, il quotidiano del Partito Socialista, l’Avanti!, a segnalare con notevole lucidità la vera natura del “miserevole” (per riprendere Di Vittorio) atto: il feroce omicidio era stato un gravissimo delitto politico, il primo che colpiva la Camera dei Deputati del Parlamento nazionale, alzando così il livello dello scontro in atto. Il giornale socialista, infatti, apriva il numero del 28 settembre titolando a piena pagina «Nelle tragiche fiammate della guerra civile», mentre l’intellettuale comunista sardo, nel suo articolo, affermava che ciò che era successo in Puglia dimostrava l’esistenza «nell’intensificata attività reazionaria, di un piano prestabilito, di un complotto». Affermazioni, quest’ultime, molto controcorrente rispetto ad una narrazione degli avvenimenti che la parte fascista stava cercando di accreditare e che la stampa d’informazione del tempo, in modo acritico, o forse complice, diffondeva, contribuendo ad intorbidire a futura memoria il quadro degli accadimenti.

Infatti, fin dalle prime ore dopo il delitto, la macchina mistificatoria si era messa in moto. E si era messa in moto con il fine di relegare la “questione Di Vagno” in una faida di sapore e significato tutto locale, variamente argomentata ma concordemente dipinta come un insieme di intemperanze di colore sostanzialmente rusticano. Si passava così dal contenuto della prima comunicazione inviata al Comitato centrale dei Fasci Italiani di Combattimento da Francesco Fato, segretario del Fascio barese, nella quale si accredita insistentemente la tesi di una vendetta personale per ragioni di donne o tutt’al più d’interessi, alla risoluzione del Direttorio del Fascio di combattimento di Bari del 26 settembre 1921, che testualmente affermava: «Il Direttorio del Fascio di combattimento di Bari ha approvato in un’apposita riunione straordinaria un ordine del giorno con il quale dichiara di aver appreso con dolore il delitto premeditato nel quale rimase vittima l’onorevole Di Vagno […] Dopo aver affermato che trattasi di un reato comune compiuto da criminali della peggior specie, dichiara di proporsi di coadiuvare le autorità nella ricerca dei complici ed esecutori». Per poi giungere, infine, alle parole de Il Popolo d’Italia, la voce ufficiale del fascismo, il quotidiano diretto da Benito Mussolini, che il 27 settembre, nel dare la notizia della morte del deputato scrisse: «Il deputato socialista Di Vagno assassinato in Terra di Bari, vittima di odi locali […] Non essendovi a Mola fascisti, è da escludersi il motivo politico; ma si ritiene che l’aggressione debba attribuirsi ad odio personale dei suoi concittadini di Conversano».

Operazione di mistificazione, quella appena descritta, tesa a minimizzare ed edulcorare la portata dell’accaduto. Cosa che in sé non solo attestava la oggettiva gravità dei fatti ma che poteva indurre il sospetto che vi era chi, ai vertici del fascismo e delle istituzioni dello Stato, aveva molto da temere dal disvelamento del vero significato di un messaggio che qualcuno, manovrando gli squadristi pugliesi ed indirizzandoli verso il delitto, aveva voluto loro inviare, con modalità che molto ricordano l’operare mafioso. Aveva molto da temere perché, in ultima analisi, il delitto mostrava brutalmente la vera faccia della costruzione politica mussoliniana e lasciava emergere con chiarezza tutti i contrasti interni e le debolezze che nascondeva l’apparente marmorea compattezza fascista intorno alla fede nel capo. Debolezze che se sfruttate politicamente, avrebbero potuto porre ostacoli lungo quella che si rivelerà essere la marcia trionfale del fascismo verso la presa del potere e, per lo meno in via teorica, mettere chi era coinvolto anche in questa brutale aggressione mortale di fronte alle proprie responsabilità, politiche e penali.

In via teorica, però. Perché i due processi che furono istituiti per giudicare l’omicidio, terminarono con un nulla di fatto. Il primo, conclusosi quando il fascismo era ormai al potere, vide gli imputati prosciolti sulla base dell’amnistia voluta, nel dicembre del 1922, dal primo governo Mussolini per cancellare i reati d’ordine politico compiuti dagli squadristi fascisti; il secondo, risalente all’immediato dopoguerra e riapertosi in seguito alla revoca dell’amnistia concessa agli imputati del crimine, si trascinò fino al 1947/1948 quando, in un altro clima politico rispetto a quello in cui il nuovo giudizio si era avviato pochi anni prima ed in cui ormai prevalevano i fattori favorevoli ad una sciagurata continuità nello Stato piuttosto che quelli che spingevano verso forme di epurazione e rinnovamento, si giunse, dopo una blanda condanna, ad una seconda, scandalosa, amnistia, sulla base del decreto voluto per realismo politico, nel giugno 1946, dall’allora ministro della giustizia Palmiro Togliatti. Si perpetuò così, anche in questi anni ed in quelli immediatamente successivi, la narrazione edulcorata e mistificata dei fatti che attenuava le colpe del fascismo e dei suoi gerarchi per l’omicidio e che finì per giustificare il destino storiografico a cui sembrava assegnata la vicenda: quello riservato agli eventi minori, materia per chi si occupa di memoria civica, poco significativa per gli storici a pieno titolo, quelli che si occupano delle grandi dinamiche storiche.

Da tale destino, la questione Di Vagno è stata riscattata solo negli ultimi decenni. Da questo punto di vista evento fondamentale sono state le pagine dedicate ad essa da parte di tre importati storici, Simona Colarizi, Mario Spagnoletti e Leonardo Rapone. I loro lavori convergono nel legare il delitto al cosiddetto di patto di pacificazione con i socialisti, auspicato dal presidente della Camera, Enrico De Nicola, che mediò al fine di far terminare le violenze politiche fasciste. Patto firmato da Mussolini il 3 agosto 1921, nell’ufficio del presidente della Camera, ma avversato dai ras dello squadrismo agrario, tra i quali il capo del fascismo dauno, Giuseppe Caradonna, forse il più oltranzista in questa contrarietà. Squadristi che si riunirono a Todi, con Dino Grandi ed Italo Balbo, in un incontro lo stesso giorno della firma, per concertare la loro violenta opposizione ad esso, tanto profonda da spingerli ad ipotizzare la sostituzione di Mussolini alla guida del fascismo. Opposizione di cui fu però vittima Di Vagno, attraverso un delitto voluto per inviare un messaggio a Mussolini ed a De Nicola. Come lo scontro all’interno del fascismo, in quel 1921, fu temporaneamente risolto, è noto: 8 novembre 1921, durante il terzo congresso nazionale dei Fasci italiani di combattimento, fu fondato il Partito Nazionale Fascista, strumento per controllare lo squadrismo. Di contro, il giorno dopo, 9 novembre, venne definitivamente cancellato unilateralmente da parte del fascismo il patto di pacificazione con i socialisti.

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