Violenza sulle donne, attenzione al manierismo

Giorgio Simonelli
Pagina 21

La tragedia della violenza sulle donne, sia nella versione estrema del femminicidio sia in quella più diffusa dell’angheria fisica e psicologica consumata quotidianamente tra le mura domestiche, è uno dei mali che da tempo affliggono la nostra società. E, anche se non vi sono ancora dati scientifici in proposito, pare fondato il timore che la convivenza forzata in casa, resasi necessaria in questi tempi di pandemia, finirà per accentuare il problema.

Ha fatto dunque una giusta scelta la Rai mandando in onda nelle ultime settimane, con buoni esiti di audience, Bella da morire, una fiction in quattro puntate esplicitamente incentrata sul tema.

Le premesse erano molto favorevoli: un regista di talento, Andrea Molaioli già autore di un paio di film notevoli (La ragazza del lago, Il gioiellino) e, nel ruolo di protagonista, Cristiana Capotondi, un’attrice molto amata che ha già ampiamente dimostrato una forte sensibilità per il tema nelle sue varie sfaccettature con la sua partecipazione al film di Marco Tullio Giordana, Nome di donna.

La vicenda – per chi non avesse seguito la serie – ruota attorno alla figura di Eva, un’ispettrice di polizia tornata per servizio nella sua cittadina lacustre d’origine, a cui è legata da spiacevoli ricordi e in cui si trova immediatamente alle prese con un caso spinoso: la scomparsa di una bellissima giovane, di nome Gioia, il ritrovamento del cadavere in fondo al lago e la scoperta che non si tratta di suicidio ma di un femminicidio. Attorno a Eva, femminista, un po’ irrisolta sul piano sentimentale, efficientissima su quello professionale fino a diventare ossessiva, grintosa, atletica, ruota un universo inquietante. La sorella è madre single di un bimbo avuto in seguito a una violenza subita in età giovanile; la bellissima vittima del delitto ha una sorella un po’ ambigua e un cognato che desta subito qualche sospetto (puntualmente confermato in seguito); l’ex fidanzato di Gioia è un manager di modelle eroinomani, il collega poliziotto per cui Eva ha un debole è stato in passato colpevole di una violenza nei confronti della ex-moglie e si rivela incline a cadere nuovamente nella cattiva abitudine non appena gli si offre un banalissimo pretesto; la giudice della locale procura ha un matrimonio in crisi, un collega amante e un marito che gentile e comprensivo, quando scopre di essere stato definitivamente scaricato, non rinuncia ad alzare le mani (non sulle donne – bontà sua – ma sul rivale).

Tutto attorno aleggia un’atmosfera di diffuso razzismo, per cui se la responsabilità del delitto ricadesse sul solito immigrato, per la maggioranza sarebbe la soluzione migliore.

Lasciando da parte le considerazioni sulla macchinosità della costruzione narrativa e su qualche interpretazione non all’altezza, affiora un altro pericolo più grave per la realizzazione delle innegabili buone intenzioni. Il pericolo è quello dell’esasperazione, dell’accumulo, della costruzione di uno scenario tutto dominato dalla devianza.  Qualche anno fa, nel pieno del dibattito su Gomorra e delle accuse rivolte alla serie che, nella sua rappresentazione totalizzante del crimine, non lasciava nessuno spiraglio di salvezza, Michele Serra scrisse un’Amaca esemplare. Ammonì che il problema non era quello moralistico dell’assenza del bene o quello politico dei panni sporchi da lavare in famiglia. Il problema vero era e continua ad essere l’accumulo di «sparatorie, sgozzamenti e canaglierie assortite» che trasformano il crimine e la sopraffazione in genere e rischiano il manierismo. Quello che è accaduto per la rappresentazione della criminalità organizzata in Gomorra, la deriva manieristica, rischia di contagiare, a suon di insulti, botte, stupri, anche altre fiction nate con le migliori intenzioni, trasformando la denuncia di un grande problema, quello della violenza sulle donne, in un nuovo genere televisivo.

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