Napoli non è sempre Napoli

Pasquale Belfiore

Un quarto di secolo orsono, con il sindaco Bassolino la città era in pieno Rinascimento napoletano (?). Il punto interrogativo è d’obbligo per gli esiti controversi di quell’esperienza. Un quarto di secolo dopo, il sindaco de Magistris annuncia la costruzione di una piattaforma in legno sulla scogliera di via Caracciolo per le feste di matrimoni. È la proposta dell’Amministrazione comunale per fronteggiare la crisi conseguente la pandemia. Non una delle proposte, ma la proposta. Di più non ha detto.

Non è vero che Napoli è sempre Napoli. Accade anche che (talvolta) Napoli non sia sempre Napoli. Intervistato nel 2008 da Claudio Scamardella, il filosofo Aldo Masullo scelse come titolo del libro Napoli, siccome immobile. A ribadirlo con icasticità sulla copertina, v’era una grande catena d’ancora in primo piano che manteneva una barca serrata al molo. Sullo sfondo, il profilo della città. Una Napoli immobile, appunto. Città deragliata, sospesa, delusa. Tre dei quattro capitoli erano così titolati, ma l’ultimo evitava il baratro dell’Ei fu ragionando sulla città futura. Una prospettiva possibile ad alcune condizioni, prima delle quali: che Napoli rinunzi ad essere sempre Napoli.

Ci provò per un lustro, tra il 1993 e il 1998. Alle elezioni comunali di dicembre Bassolino aveva vinto sulla Mussolini e iniziava la sua strada tutta in discesa, tanto era il favore che aveva dalla sua. Non era il solo sindaco a goderne nel Paese. Le ragioni sono note, qui solo elencate per contestualizzare il racconto: Tangentopoli e la crisi dei partiti storici, la volontà di riscatto, la riforma degli enti locali con i rilevanti poteri conferiti alla figura del sindaco, l’appoggio incondizionato di gran parte della stampa e dei media. A sommare, nel caso specifico di Napoli, i sofferti decenni del colera e del terremoto, le tante malestorie politiche che datavano dalle mani sulla città di Achille Lauro e arrivavano alla stagione dei tre vicerè Pomicino, Di Lorenzo e Di Donato.

Per Bassolino, un esordio in chiave confidenziale con slogan come «sono il sindaco dei napoletani onesti» e «passo dopo passo». Apparivano di sapore nazionalpopolare, ma avevano un retroterra di scientifica e raffinata strategia politico-comunicativa iniziata anni addietro da Mauro Calise, ideologo della stagione dei sindaci in Italia e costruttore della figura di Bassolino-sindaco. Per la città obbligata a redimersi, un esordio all’insegna della curiosità mista a diffidenza, poi una conversione quasi di massa e infine una dedizione alla causa. Permanevano sparute isole di resistenza che conservavano ancora qualcosa di napoletano, verrebbe da dire, localizzate in ambienti di destra e riottose al cambiamento. Dissensi marginali in quel clima nel quale Napoli credette di non somigliare più tanto a Napoli. Ed aveva anche qualche buona ragione per farlo.

Rinascimento napoletano, dunque. Non fu solo una bene orchestrata operazione mediatica. Ci fu anche sostanza politica, e di ottima fattura, poi messa in ombra e infine cancellata con errori, ovviamente, di natura politica. Si esordiva con cose serie, strutturali: nuovo piano regolatore generale, metropolitana, pedonalizzazioni di piazze e maggiori arterie cittadine, nuovi dispositivi di traffico, raccolta rifiuti, riordino della macchina amministrativa comunale. Il G7 del luglio 1994 intercettava i primi segnali del rinnovamento, due mesi prima un milione di persone aveva partecipato al Maggio dei monumenti organizzato dalla Fondazione Napolinovantanove di Mirella Barracco, una delle poche iniziative ancora oggi attive. Cultura e arte erano il connettivo di tutti i progetti, scelta non estemporanea ma meditata. Solo su questi piani la città ha sempre avuto le carte in regola, ha esercitato magistero nel mondo, poteva essere credibile. Era l’unico caso in cui Napoli è sempre Napoli ma in una accezione altamente elogiativa.

Due immagini simbolo dell’utilizzazione del binomio cultura e arte nei progetti per la città: piazza Plebiscito e stazioni della metropolitana. Per il Plebiscito, la foto non è quella della piazza vuota perché pedonalizzata. Sarebbe stata espressione d’una semplice delibera dell’assessore al traffico. L’immagine simbolo è la stessa piazza con la fiabesca Montagna di Sale di Mimmo Paladino realizzata per il Natale 1995. Fece il giro del mondo e fece intuire i connotati del cambiamento in corso. La cartolina del panorama da Posillipo andava in quiescenza e la città si proponeva con una straordinaria opera d’arte in una bella piazza neoclassica italiana. Da allora e per quindici anni ancora, sono state fatte mostre annuali di artisti come Kapoor, Kounellis, Sol Lewitt, Serra, Horn, Merz, Fabro, Pistoletto. Per le stazioni della metropolitana, progettisti e artisti di rilievo internazionale, architetture d’autore e opere d’arte a corredo degli spazi interni e esterni. Metropolitana dell’arte è definizione che spetta di diritto. Poi, diverrà motivo di insofferenza.

Dopo quasi cinque anni e al secondo mandato, Bassolino accettava la proposta di ministro del Lavoro nel governo D’Alema, ottobre 1998. Si interrompeva l’idillio con la città, espressione retorica ma era proprio questo il sentimento che lo legava a Napoli, città che si sentiva tradita o che, in realtà, era stata tradita. Iniziava la serie degli errori politici, suoi e di altri, che nel giro di qualche anno avrebbe scardinato ‒ «passo dopo passo» sarebbe il caso di dire (beffardamente) ‒ non l’immagine ma la sostanza stessa di quanto era stato costruito. Il Rinascimento non avanzava verso i fasti del Barocco (che peraltro è stata la più importante stagione artistica di tutta la storia di Napoli) ma sembrava regredire al Medioevo. Ampia la letteratura sull’argomento. Un solo caso dimostrativo, la metropolitana. Quando cominciò la crisi per l’incapacità di gestirla e i treni avevano cadenza biblica, la presenza di opere d’arte e di spazi d’autore era, ed è vissuta come uno sberleffo, l’arte vista come paravento all’inefficienza. Esaurita progressivamente la spinta propulsiva iniziale con la quale la città rischiava il cambiamento, tutto rientrava nella norma, Napoli ritornava ad essere di nuovo Napoli.

Hans Stimman è stato l’artefice della ricostruzione di Berlino dopo la caduta del muro. Più volte invitato in città per convegni e mostre, disse che tra Napoli e Berlino corre una sola differenza. L’identità dei berlinesi è il cambiamento nell’attesa del futuro. L’identità dei napoletani è l’immobilità nella contemplazione del passato. Sintesi perfetta, chiosava Scamardella nella citata intervista a Masullo. E aggiungeva, nella conclusione, che era necessario «rifuggire dalla tentazione di sopravvivere al bassolinismo inseguendo le mode degli uomini forti, dei sindaci-sceriffi, delle leadership carismatiche e solitarie a scapito dei contenuti e delle idee-forza […] È meglio per Napoli e per i napoletani, che chi governa si comporti da milanese».

Monito clamorosamente disatteso. Ma sorprendente, quasi profetica descrizione di chi mai avrebbe dovuto fare il sindaco di Napoli ed invece da lì a tre anni nel 2011 lo divenne. Non si è mai comportato da milanese e perciò Napoli continua ad essere sempre Napoli.

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