Strappare lungo i bordi, la forza del messaggio

Mario Orsini

L’ultimo fine settimana sicuramente un sacco di gente è rimasta vittima sulla via per il divano dalla folgorazione per Strappare lungo i bordi serie Netflix di Zerocalcare nome d’arte di Michele Rech grafico novellista molto conosciuto in un pezzo di mondo che definirei di mezzo.

Non sono tra loro ovviamente, ma obbedisco a che mi ha stato chiesto di occuparmene.

La serie costa di 6 puntate da circa 20 minuti l’una ed è una novità di genere per la produzione seriale italiana poco avvezza a questo tipo di opere in animazione per adulti.

Ho cercato di capire in giro come la vedessero gli altri perché mi sentivo inadeguato alla sua lettura, alla sua comprensione e non mi sono ritrovato molto nelle polemiche incentrate sulla questione del romanesco e poi sulle origini punk della poetica dell’autore.

Mi è sembrato che incentrare il discorso sul tema della lingua facesse perdere di vista un’altra priorità che a me è sembrate evidente: la forza del messaggio.

Piaccia o non piaccia si tratta di un prodotto di alto livello qualitativo pieno di spunti e novità che esprime una fattura di livello internazionale in contrasto solo apparente con l’uso del romanesco.

Il romanesco è pura identità comunicativa, non si poteva pensare quelle cose e dirle in italiano, non sarebbero state credibili con buona pace della distribuzione internazionale.

Il romanesco per Zerocalcare è la sua tuta da ginnastica comunicativa.

Netflix dimostra ancora una volta che si possono fare operazioni culturali che appaiono di nicchia ma che invece possono risultare d’interesse generale.

«Semo come fili d’erba» dice Zerocalcare ad un certo punto del suo racconto e vorrei partire proprio da qui per dire che sono due i concetti di rilievo per me che emergono dalla visione.

È una serie disturbante e generazionale.

Strappare lungo i bordi è un racconto che disturba, è urticante e il romanesco serve per sottolineare questa intenzione narrativa.

Tutta una serie di espressioni come «nutrire il dibattito» o «metti che sia un accollo» oppure «esperienza soverchiante» «tutta sta’ fretta de fa succede le cose» sono tutti riferimenti che nascono dall’assistere alla fine del vivere come gruppo sociale e di esprimere il disagio di vivere individualmente questa contemporaneità secondo i canoni correnti.

Zerocalcare conosce perfettamente le liturgie della moderna comunicazione ed i valori finti che propone. Li elenca e ne fa un Pantheon fondativo per quelli che la pensano come lui.

L’intensità verbale dei dialoghi è un atto di accusa al mondo e il prodotto, nel suo complesso, è più un manifesto dei simboli e delle ritualità che solo l’espressione del carattere del protagonista.

È disturbante perché sembra dire che non c’è futuro perché non esprime alcuna passione per il futuro che neppure esiste per il protagonista.

Non riesco a crederci però, penso sia un modo di comunicare più che una vera convinzione.

Più penso a ciò che ho visto è più provo dolore. Non è un prodotto divertente ma serve a far riflettere sul vuoto, sulla fragilità assoluta del vivere di oggi.

Il protagonista è sempre in fuga da tutto non vuole provare dolore, ha paura di affrontare la verità ma l’accetta. Dimostra, lungo tutta la linea della storia, di sentire le cose è sentire di per sé è speranza anche se si vergogna di ammetterlo.

È un racconto generazionale, una sorta di cinghia di trasmissione di valori e riferimenti degli ultimi 20 anni cioè di coloro che sono nati a cavallo tra il vecchio e il nuovo secolo e si sono formati sui media e non con la letteratura.

Si ha come la sensazione che le cose passino talmente velocemente che non è possibile affezionarsi, approfondire. Poi, quando vedi la puntata sul funerale della sua amica, la semplicità dei sentimenti espressi e la verità relativa all’amore provato e non comunicato, ti travolge fino alle lacrime.

Nessuno ha parlato di lacrime, a me questa serie non è piaciuta perché mi ha fatto quasi piangere e invece pensavo di ridere dimostrando tutta la mia inadeguatezza. Ha un sapore pasoliniano, disperato.

È un prodotto generazionale perché ha la grandezza di parlare di un mondo scarsamente rappresentato perché difficile da interpretare. Perché di faglia, cioè ha il compito naturale di traslocare il vecchio nel nuovo ed è un compito che questa generazione si è ritrovato addosso, non ha scelto.

Serie icona per tutti coloro che sono nati negli anni ottanta e hanno vissuto la loro gioventù nei primi anni duemila.

Va detto che è anche un manifesto sulla fine dei sogni. Meglio il divano che la fatica bruciante di coltivare delle aspirazioni. Le aspirazioni ti costringono a pianificare la vita e costano una grande fatica e poi c’è da tenere in conto la gestione della sconfitta sempre possibile.

La completa estraneità a qualsiasi ragionamento sull’arricchimento e sul consumo attrae e incuriosisce.

L’invenzione dell’Armadillo è un’idea fantastica per dare corpo alla sua vita interiore.

La completezza dei riferimenti culturali ne fa un bigino perfetto per quelli come me che sono lontani da questo mondo per manifesta natalità antecedente.

Per questa ragione a mio avviso questa serie è un prodotto da rivedere molte volte perché ha molteplici piani di lettura che non appaiono, tutte, alla prima visione.

Un viaggio originale e veloce dentro gli ultimi venti anni che ancora nessuno ha cominciato veramente a raccontare.

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