Il sol dell’avvenire riscopre la vis ironica di Nanni Moretti

Giorgio Simonelli

È proprio bello il film di Nanni Moretti e ci fa tirare un bel sospiro di sollievo dopo la delusione di Tre piani. Bello non vuol dire perfetto e quindi togliamoci subito i due o tre sassolini che ci danno un po’ di fastidio: il vezzo della declamazione stentorea di ogni battuta che sembra diventata irrinunciabile per il regista-attore e di cui dopo un po’ ci si chiede il perché; l’ossessione delle calzature con l’idiosincrasia per i sabot che risulta un po’ prevedibile; l’autocitazione dell’indimenticabile Caro diario con la compiaciuta passeggiata per le strade di Roma non più in Vespa ma in monopattino.

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Bello vuol dire che il giorno dopo, ripensandoci, Il sol dell’avvenire lo gusti ancora di più che nel corso della visione. Bello, tanto bello che sei lì a chiederti quale dei due discorsi del film, quella politico e quello sul cinema, ti ha più coinvolto. Per quel che mi riguarda, il secondo. Ma questo non vuol dire che il primo sia debole. Anzi. È un discorso esagerato, eccessivo, provocatorio, basato sul rovesciamento di un’idea ampiamente condivisa: la storia non si fa con i se. Proviamo invece a farla e vediamo, letteralmente, nel senso che le immagini del film che il regista sta girando ce lo descrivono, cosa succede.

Succede che nel 1956 di fronte all’invasione sovietica dell’Ungheria e dello sciopero di protesta indetto dagli artisti di un circo magiaro ospite del PCI a Roma, la moglie del segretario della sezione comunista, una sarta bella, piena di vitalità e di ideali convince il marito, i militanti e i responsabili de l’Unità, l’organo del partito, a modificare la linea ufficiale e ad abbandonare il legame con l’Unione sovietica. Dopo conflitti, discussioni, crisi e rischi di suicidio, il nuovo corso è celebrato da una gioiosa, colorata manifestazione in cui l’effigie di Stalin è sostituita da quella di Trockij e tra i partecipanti compaiono molti amici e amiche di Nanni Moretti estranei alle vicende narrate dal film come segno di un’adesione universale all’ipotesi che la Storia, quella con la S maiuscola, non ha voluto accettare.

Il tema politico non è certo di poco conto, al di là del fatto che l’ipotesi presenta la natura che in sintassi si definisce del terzo tipo. Non si tratta infatti della vecchia contrapposizione tra la fazione più dura, conservatrice, filosovietica del PCI e quella più moderata, indipendentista, contrapposizione che nel ’56 ci fu realmente con uscite eccellenti dal partito. La contrapposizione che Moretti mette in scena è quella assai più fantasiosa tra il centralismo e un movimentismo romantico un po’ sessantottino. La proposta è molto interessante.

Ma quella metacinematografica lo è ancor di più, per vari motivi. Cominciamo dal fatto che nel film ci sono più film: quello che Giovanni sta girando sul ’56, quello che vorrebbe girare su una lunga vita di coppia scandita dalle più belle canzoni italiane, quello che ha rinunciato a girare e che sembrerebbe un remake di Un uomo a nudo di Frank Perry e quello che ammira più di tutti, Lola donna di vita di Jaques Demy. Sparsi qua e là ci sono un omaggio esplicito e appassionato ai fratelli Taviani e uno più vago e scherzoso a Effetto notte di Truffaut. Poi c’è l’impianto felliniano, la struttura di 8 e mezzo: la crisi coniugale che si sovrappone alla crisi creativa, i suicidi immaginari, la soluzione dei problemi con la trovata del girotondo che qui è la sfilata sul modello del Quarto stato di Pelizza da Volpedo. Ma un amico studioso di cinema, Tonino Repetto, che ha scritto un libro fondamentale su Pasolini ma vive in simbiosi con il cinema di Fellini, mi ha avvisato: evidente la presenza di 8 e mezzo e l’omaggio a La dolce vita, ma non sono da trascurare i rimandi a L’intervista con i coreani al posto della troupe giapponese e l’incipit con il militante che calato giù su un seggiolino scrive sul muro a caratteri cubitali il titolo del film come nell’Intervista faceva un certo Gaspare sbeffeggiato dai compagni.

Ci sono soprattutto i discorsi più impegnativi sul cinema contemporaneo e qui il film offre momenti di ineguagliabile, divertente profondità. Brilla l’ironia su Netflix, sui 190 paesi raggiunti dai suoi prodotti, sulle sue ferree regole di narrazione: la cattura dell’interesse dello spettatore entro i primi due minuti, il turning point e l’irrinunciabile momento What the fuc.

Invece il momento magico il film di Moretti lo raggiunge con due lezioni di cinema. La prima è quella dell’attrice che interpreta il personaggio della moglie del segretario della sezione comunista e che vuole intervenire a dare alle scene in cui è impegnata un senso diverso da quello previsto dalla sceneggiatura e dal regista. Il tema è quello del ruolo dell’attore nella costruzione dell’opera e secondo l’attrice bisogna seguire il metodo di Cassavetes con la sua valorizzazione degli interpreti e della loro interpretazione della storia. Che secondo l’attrice non è una storia politica ma d’amore: l’ipotesi sembra un po’ azzardata e sostenuta con una certa petulanza, ma …  e se avesse ragione lei?

La seconda lezione è quella che Giovanni, creando non poco imbarazzo tra i presenti, tra cui la moglie, impartisce al giovane regista che sta girando una scena violenta di uccisione. È il grande tema della violenza nel cinema contemporaneo che può essere un momento banale o sublime a seconda di come si rappresenta, se a farlo sono Kieslowkij e Scorsese o qualcuno di minor talento. Per convincere il giovane regista del suo errore, Giovanni chiama in soccorso Renzo Piano, Chiara Valerio e Corrado Augias che argomentano da par loro il concetto; infine, per dare il colpo finale pensa di coinvolgere proprio Scorsese e lo chiama al telefono, ma Martin non risponde, c’è soltanto una maledetta segreteria telefonica. E tutto il discorso serissimo sulla violenza finisce sepolto sotto una grande salutare risata a dimostrazione che Nanni Moretti non ha più il fisico scattante di quando aveva trent’anni, come egli stesso si rammarica, ma la vis ironica è rimasta quella di Io sono un autarchico e Sogni d’oro.

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