La Scuola cattolica vietata ai minori

Giorgio Simonelli

Non vorrei sembrare pilatesco o, come si dice con un neologismo, cerchiobottista, ma la decisione di vietare il film La Scuola cattolica ai minori di 18 anni non mi provoca lo scandalo e l’indignazione che ha suscitato in molti commenti, finendo per esaurire in questa polemica ogni considerazione sul film che meriterebbe anche altre analisi.

Si tratta di una decisione difficile, delicatissima che, qualsiasi soluzione avesse adottato, avrebbe lasciato spazio a valide obiezioni. Ma forse è opportuno partire proprio dalla scena finale, quella del celebre massacro, quella che ha spinto la commissione a scegliere il divieto più restrittivo. Si dice nelle motivazioni della sentenza che il problema è quello di un racconto filmico che mette sullo stesso piano vittime e carnefici nella loro incapacità di comprendere la realtà che stanno vivendo. Un’interpretazione, quella della commissione, non del tutto immotivata ma sicuramente eccessiva nella lettura delle immagini.

Il problema, come si suol dire, è un altro ed è un problema che mi induce a considerare il tanto discusso divieto ai minori non così fuori luogo e fuori dal tempo come molti hanno detto. Il problema è davvero quella scena, non nella sua ambiguità come insinua la commissione, ma nella sua crudezza, nella sua descrizione puntuale, interminabile quasi insopportabile dei particolari della violenza e dell’omicidio (all’opposto di quanto avviene nel libro da cui il film è tratto dove l’azione delittuosa ha un posto marginale).

Se tra le varie etimologie attribuite alla parola osceno vogliamo accogliere quella teatrale, dell’ob-scena, cioè di ciò che deve stare fuori dalla scena per l’impossibilità di rappresentarlo e di reggerne la vista, ecco nel caso della parte finale del film, siamo in piena oscenità, nel senso nobile del termine. Se consentire o vietare ai minori la visione di queste immagini oscene, non quelle banali, superficiali, volgari che consumano abitualmente, resta motivo di seri dubbi. Dubbi che il film non aiuta a risolvere. Perché, se c’è un limite che il lavoro di Mordini e degli sceneggiatori non riesce a superare è proprio quello dell’analisi delle cause della volenza cieca, assurda, immotivata. Premettiamo, a scanso di equivoci: non si tratta affatto di un brutto film, anzi i giudizi molto tiepidi e piuttosto severi dei tanti critici non mi paiono condivisibili. La scuola cattolica è un film con un ottimo ritmo narrativo, che muove il racconto in avanti e indietro nel tempo, che asciuga con coerenza l’enorme quantità di materiale proposto dal monumentale romanzo di Edoardo Albinati.

Lo fa con una uniformità iconografica e cromatica capace di rendere l’universo cupo e ineluttabile che tiene in scacco i personaggi; affida i ruoli a bravi interpreti (più i giovani che quelli più noti un po’ troppo adagiati su certi cliché). Ma non riesce a esprimere compiutamente il senso del racconto, a dire qualcosa di profondo sul suo tema centrale, sull’origine del male, sulla natura di questa malvagità senza la quale non esisterebbe neppure la bontà, come spiega il professore di arte illustrando il quadro della flagellazione di Cristo. Il male, nella trasposizione cinematografica del romanzo, non è nella scuola a cui il film fa in realtà ben pochi accenni, non è nella società, in quel tempo violento degli anni Settanta che viene evocato solo fugacemente da una voce fuori campo, non è nel classismo fascistoide che vanta il disprezzo per gli appartenenti alle classi inferiori.

Il riferimento più esplicito è alle famiglie: una con un padre severo fino alla violenza fisica, un’altra con il padre esimio studioso ma assente e solo tardivamente capace di rivelare la propria omosessualità, una terza con la madre bellissima già attrice in gioventù e ora tristemente coinvolta in avventure erotiche con uno studente e una famiglia assai numerosa, cattolicissima fino alle soglie del bigotto segnata da una tragedia. Ma su questo versante il film non brilla per originalità: situazioni e personaggi scivolano nella prevedibilità, in un déjà vu in cui si smarrisce ogni spessore simbolico.

Arriva, come si diceva, a mutare completamente il registro del film, riportandolo a livelli più alti, la lunga sequenza del delitto, resa ancor più forte dal successivo rocambolesco ritrovamento delle vittime e dal contrappunto del cartello finale che ricorda l’inadeguatezza della pena e il mancato ravvedimento dei criminali. Poi, se tutto ciò, tutta questa rappresentazione esplicita ma mai compiaciuta, certo oscena della malvagità, questo pugno nello stomaco dello spettatore sia in grado di suscitare sapientemente l’orrore e la pietà aristotelici o possa invece generare confusione nelle menti dei più giovani è questione davvero non facile.

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