Pino Daniele, il ricordo di Lector in fabula

Oscar Buonamano

La sera del 4 gennaio del 2015 moriva Pino Daniele e decidemmo di dedicargli l’undicesima edizione di Lector in fabula. Il 12 settembre di quello stesso lo ricordammo così.

Napoli è una città nata capitale e che capitale, nonostante i tentativi di renderla marginale, resterà per sempre. Secoli di storia che l’hanno vista primeggiare in tutte le attività dello scibile umano hanno sedimentato nel corso degli anni saperi e conoscenze che hanno generato tante città, tutte racchiuse una dentro l’altra. Città che convivono a fatica, spesso in antitesi tra loro, sovraffollate. Città popolate da una fauna umana che ha pochi eguali al mondo. Un popolo, quello napoletano, che rappresenta e svela le contraddizioni con le quali siamo costretti a convivere ogni giorno. Alto e basso. Bello e brutto. Educato e maleducato. Legale e illegale. Consapevole e inconsapevole. Una capitale unica e generosa, come unici sono i tanti talenti che la città da sempre genera.

Unico è stato Eduardo De Filippo, così come unico è stato Massimo Troisi.

Unico e inimitabile è stato Pino Daniele. Un’artista capace di innovare profondamente la canzone partenopea coniugandola sempre alla sua vocazione, autenticamente, popolare. Una musica nuova che nasce da una contaminazione con il suono, il ritmo, i colori e la sensibilità della cultura mediterranea.

Pino Daniele ha saputo valorizzare la cultura partenopea partendo dalla realtà e trasformandola in poesia. Una napoletanità nuova e nello stesso tempo antica, alla quale ha saputo dare una forma compiuta in musica e parole già a diciotto anni quando compose uno dei suoi capolavori, Napul’è, contenuto nel suo primo album, Terra mia.

«Terra mia fu scritta sul divano di casa a S.Maria La Nova 32. Le mie ambizioni erano quelle di scrivere canzoni come Luigi Tenco e suonare con i grandi chitarristi, a metà tra futuro e tradizione».

Ciò che racconta Pino Daniele a proposito del suo primo disco da professionista, Terra mia è del 1977, si colloca tra l’antropologia culturale e la recensione musicale. L’affermazione iniziale, inoltre, c’informa che le prime canzoni nascono a casa sua, nel quartiere dove è nato, il Cavone.

Il Cavone è un quartiere del centro storico di Napoli, una piccola città nella città, come lo sono tutti i quartieri storici, luoghi identitari. E ogni luogo identitario ha il suo genius loci che indirizza e condiziona la vita dei suoi abitanti, soprattutto quella dei più sensibili, coloro che riescono a vedere e sentire ciò che i più non vedono e non sentono. Il genius loci di Napoli è il suo centro storico, una struttura urbana che sta per compiere trenta secoli di vita e che dal 1995 è stato dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco con questa motivazione: «Si tratta di una delle più antiche città d’Europa, il cui tessuto urbano contemporaneo conserva gli elementi della sua storia ricca di avvenimenti. I tracciati delle sue strade, la ricchezza dei suoi edifici storici caratterizzanti epoche diverse conferiscono al sito un valore universale senza uguali, che ha esercitato una profonda influenza su gran parte dell’Europa e al di là dei confini di questa».

E Pino Daniele sintetizza al meglio le caratteristiche per le quali il centro storico di Napoli è diventato patrimonio dell’umanità. Le sue canzoni nascono e traggono ispirazione proprio da quei luoghi e dall’umanità che li abita e frequenta. E proprio come i tracciati delle strade di Napoli o la ricchezza dei suoi edifici, la sua musica, che attinge fortemente dalla tradizione musicale partenopea, è capace di essere universale. Ovvero travalica i confini del Cavone, conquista prima Napoli e l’Italia e poi supera i confini nazionali. E tutto avviene con sorprendente semplicità a partire proprio dalla lingua che Pino Daniele utilizza per scrivere le sue canzoni. Un napoletano/italiano che tutto il Sud comprende, ma che non è difficile capire anche al Nord perché aperto alla contaminazione. Anche i contenuti, i temi delle canzoni, seguono lo stesso percorso di trasformazione della lingua. Rappresentano in musica, rivendicazioni di diritti e libertà, stati d’animo e parlano di bellezza e amore in modo semplice e diretto, oserei dire, in modo autenticamente popolare.

Ci si riconosce nelle liriche di Pino Daniele e il ri-conoscimento è interclassista. Si riconoscono il dotto e l’ignorante, il ricco e il povero, il bianco e il nero, una ricchezza pari solo alla ricchezza e diversità dell’umanità che abita Napoli. I testi trasformati dalla musica sono, nella maggior parte dei casi, onomatopeici e proprio per questo intuitivi e accessibili a tutti. Quando Pino Daniele canta «’e vecchie vanno dinto a chiesia cu’ a curona pe’ prià e ‘a paura ‘e sta morte ca nun ce vo’ lassà», sembra quasi di assistere alla messa mattutina dal primo banco dove arrivano, tremanti e confuse, le invocazioni e le preghiere dalle ultime fila. Quando ascolti questo non puoi non lasciarti andare e farti travolgere da sentimenti forti e contrastanti che quelle parole, quella musica, ma soprattutto quella voce, evocano.

La seconda affermazione, «[…] Le mie ambizioni erano quelle di scrivere canzoni come Luigi Tenco e suonare con i grandi chitarristi, a metà tra futuro e tradizione», contiene la sua lezione musicale. Nuove melodie che attingono direttamente alla ricchezza musicale di Napoli e dell’intero bacino del Mediterraneo. Una contaminazione di generi che supera, anche in questo caso, i confini di Napoli e dell’Italia e recupera suoni dell’Africa e dell’America, reinterpretandoli. A metà tra futuro e tradizione, appunto.

E dunque pur cantando il mondo che aveva davanti ai suoi occhi, come tutti i veri artisti, ha saputo cogliere quei caratteri di universalità che narrano la storia di ognuno di noi. La storia del Sud e dei Sud all’inizio, dell’amore nella sua seconda vita artistica.

Anche per queste ragioni la morte di Pino Daniele ha portato via con se un po’ di noi, della nostra gioventù. Di ciò che eravamo e che siamo diventati anche grazie alle emozioni che le sue canzoni hanno saputo regalarci. Muore con lui la spensieratezza di quei lunghi pomeriggi trascorsi a non far nulla. Il tempo che non conosce tempo.

Resta, ovviamente, la sua musica, e restano, soprattutto, le sue parole. Resta la bellezza che ha saputo creare. E chi è capace di rappresentare la bellezza così come l’ha rappresentata Pino Daniele, non può morire. Non muore mai.


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