Carlo Verdone, l’eclissi della satira di costume

Giorgio Simonelli

Chi ama il cinema ha seguito con interesse e simpatia le complesse vicende vissute dall’ultimo film di Carlo Verdone, Si vive una volta sola. Pronto per l’uscita nelle sale più di unno fa, fu bloccato dalle restrizioni causate dalla pandemia. Il regista ne fece una sorta di bandiera della fruizione del cinema sul grande schermo e decise di procrastinarne l’uscita fino alla riapertura. Quando la cosa sembrava finalmente possibile, lo scorso autunno, la seconda ondata riportò a una ancor più lunga e dolorosa chiusura. Poche settimane fa, lo sfinimento di questa interminabile attesa ha avuto la meglio sulla volontà di testimonianza per una giusta causa e il film è approdato su una popolare piattaforma televisiva. Nonostante la sconfitta finale è giusto rendere onore alla resistenza del regista durata più di un anno e alla sua battaglia per consentire una lunga vita alla programmazione dei film nel loro spazio ideale.

Purtroppo, dopo questa doverosa e sentita premessa, non è possibile nascondere una notevole e altrettanto sentita delusione: la bandiera non è all’altezza dell’ideale che ha voluto coraggiosamente rappresentare. Ho parlato di grande delusione perché la sensazione non è solo quella di trovarsi di fronte a un’opera non riuscita, ma  all’esaurimento di un percorso artistico molto importante nella storia del cinema e della vita culturale nazionale.

Sperando ovviamente di aver avuto una sensazione sbagliata e di essere presto smentiti dai fatti. Per ora, dopo aver visto Si vive una volta sola, non è possibile evitare un bilancio.

Carlo Verdone ha diretto 27 film, non tutti capolavori, ma anche quando i suoi lavori rivelavano un po’ di stanchezza, un po’ si prevedibilità, era subito pronto a riprendersi, a trovare un guizzo che gli restituiva originalità e fantasia. Fu così che arrivarono, in mezzo a prodotti di routine, quei film destinati a restare scolpiti nella memoria del cinema italiano come Borotalco, Compagni di scuola, Maledetto il giorno che ti ho incontrato. Viaggi di nozze.

Ora da qualche anno la sua creatività sembra inceppata. Negli ultimi tre film la sola cosa sorprendente è la scoperta finale del vero colpevole delle sventure dei due protagonisti in L’abbiamo fatta grossa. In Si vive una volta sola viene a mancare anche questa possibilità: che la vittima di turno, il povero Papaleo vessato dagli scherzi dei colleghi abbia ordito a sua volta un macabro scherzo, fingendo una malattia mortale, è una soluzione di sceneggiatura talmente telefonata e prevedibile da rendere insipide tutte le vicende della seconda parte del film.

Ma questo è un dettaglio, il problema vero è un altro ed è molto serio, riguarda la costruzione dei personaggi. I personaggi verdoniani, i suoi famosi personaggi che abbiamo amato, di cui abbiamo citato le battute sono sempre stati lo specchio di tendenze, situazioni, mode, vezzi, angosce, aspirazioni, derive presenti nella società. Non che fossero figure realistiche – è chiaro – ma anche quando il regista spingeva al limite la sua scelta del paradosso, i suoi eterni bamboccioni, i suoi nevrotici, i suoi coatti, le ragazze ingenue o astute ingigantivano, esaperavmo atteggiamenti, stili di vita diffusi. Era la grande capacità di cogliere e dipingere caricaturalmente il mondo circostante che nasceva dalla sua vena cabarettistica. Anche nelle immagini e nelle situazioni più paradossali, anche nell’«o famo strano» di Viaggi di nozze, nella vita che «più che altro è stato un’odissea» di Borotalco si poteva trovare al fondo qualcosa di vero.

Ecco: questo è ciò che in Si vive una volta sola non esiste più. Le figure dei chirurghi che vivono il loro «amici miei» non sono più paradossali ma soltanto improbabili, le loro angosce un banalissimo déjà vu, una galleria di luoghi comuni, dalle corna ovviamente assai diffuse all’esibizione televisiva sexy assai volgare della figlia del primario. È come se il regista avesse smesso di guardarsi intorno, nelle strade, nei quartieri, nei bar e negli altri luoghi di incontro da cui traeva ispirazione per creare il suo (e nostro) immaginario e si sia accontentato di riciclare macchiette, battute da barzelletta, situazioni obsolete da vecchia pochade. Per questo il suo declino è un problema grave, drammatico. L’eclissi di una satira di costume, pungente, aspra, anche amara come quella di Compagni di scuola è una sconfitta non solo per gli amanti del buon cinema, ma per l’intera società civile.

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