Contro la passività. I Giardini dei Giusti e il metodo Gariwo

Gabriele Nissim

È importante riflettere sul fine pedagogico ed educativo dei Giardini dei Giusti per la crescita morale della società.

Lo potremmo chiamare metodo Gariwo: una nuova esperienza costruita dal basso che cerca rendere i giovani e i cittadini protagonisti delle vicende umane e internazionali in un contesto dove prevale quasi sempre un comportamento passivo da spettatori.

Un atteggiamento simile, per esempio, a quello di chi, seguendo con passione la propria squadra di calcio, non può fare nulla per cambiare il risultato. Un comportamento che replichiamo in tante modalità della nostra vita, quando immaginiamo che sia sufficiente tifare sperando che le cose si risolvano per il meglio. È ciò che avviene nei social dove le persone ritengono che un like per un diritto calpestato, o anche una forma di indignazione per un mancato salvataggio in mare, possa cambiare le cose.

La protesta virtuale è una modalità che permette di avere la coscienza a posto, senza impegnarsi e mettersi in gioco. Essa ci permette si essere dalla parte delle vittime senza mai occuparsene personalmente, purtroppo come accade spesso nelle Giornate della Memoria, quando è facile, ritualmente, prendere posizione contro il nazismo e lo sterminio degli ebrei e non invece interrogarci sulle responsabilità che ci competono nel mondo di oggi.

Vale la pena di ricordare l’etimologia della parola latina impegno composta da in e da pignus  (pegno). Secondo il giurista romano Gaio (morto nel 180 d.C.) pignus sarebbe derivata da pugno, dal momento che «con le mani si danno le cose».

Dunque, non basta la sola intenzione, come quella che manifestiamo nei social: mettersi nella dimensione dell’agire significa sporcarsi le mani. Come scrisse il polacco Stanisław Jerzy Lec, in un famoso aforisma di Pensieri spettinati (1957): «Aveva la coscienza pulita, mai usata». Questo accade a chi si sente un’anima bella senza fare e rischiare nulla, invece di usare le mani che mettono in moto un’azione.

Com’è allora che i Giardini dei Giusti educano le persone all’azione e al coinvolgimento personale?

Il punto di partenza è la definizione della loro missione. I Giardini sono lo strumento culturale per rendere vive nella società le due grandi risoluzioni approvate dalle Nazioni Unite dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale, cercando di dare una base politica al concetto del «mai più» e al rispetto della pluralità umana. Era questo l’intento della Convenzione per la prevenzione dei Genocidi proposta da Raphael Lemkin nel 1948 e della Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo, promossa da Eleonor Roosevelt che chiamarono le istituzioni internazionali  a farsi carico di questo impegno morale e politico.

Siamo consapevoli dei ritardi e dei veti politici degli Stati che si sono sottratti a un impegno condiviso con il fine di coprire ogni volta le loro responsabilità, ma è un dato di fatto che le due risoluzioni non si sono mai incarnate nella vita attiva delle società. Non hanno infatti trovato un luogo fisico riconoscibile che ne esaltasse la loro funzione con i compiti da realizzare di generazione in generazione di fronte ad ogni possibile deriva violenta. Questo perché i nuovi comandamenti indicati (non commettere genocidi e proteggere la persona umana nelle sue varie espressioni) si possono affermare a livello internazionale solo se si crea un movimento dal basso che li sostiene.

I Giardini dei Giusti sono quindi in primo luogo sono un tempio civico, una sorta di agorà permanente nei vari paesi, che sprona le società a farsi parte attiva nell’ applicazione delle due risoluzioni dell’Onu.

La metodologia di questa missione dei Giardini si basa su due elementi: la trasmissione della conoscenza e lo sviluppo dell’empatia (che è il presupposto per un impegno attivo).

La conoscenza di quanto accade nel mondo, dentro e fuori dei nostri confini, rappresenta l’elemento indispensabile affinché i visitatori dei Giardini possano agire come cittadini del mondo. Sappiamo infatti che l’ignoranza, il negazionismo politico e la censura delle informazioni sono il meccanismo che, dalla Shoah alle nuove persecuzioni, hanno permesso alle autocrazie e alle dittature di nascondere i loro crimini.

I Giardini dunque, informano la società sullo stato del mondo per rompere l’indifferenza che si basa sulla non conoscenza.

 Se non si conosce non si può agire. Anzitutto i Giardini richiamano costantemente alla conoscenza dei diritti negati e violati dall’Iran, all’Afganistan, alla repressione politica in Russia, alle nuove guerre e discriminazioni nelle varie parti del mondo, fino agli effetti dei cambiamenti climatici che mettono a rischio la sopravvivenza del pianeta. Per questo è necessario che alla vita dei Giardini possano partecipare, come punto di riferimento conoscitivo e morale, i migliori intellettuali ed educatori che possano trasmettere alla società le loro conoscenze. Al Parlamento italiano la Fondazione Gariwo ha chiesto che ogni anno venga fatto un report sullo stato dei diritti dell’uomo e sull’insorgere di nuovi genocidi. Questa conoscenza dello stato del mondo potrebbe essere veicolata dall’attività dei Giardini che dovrebbero venire indirizzati a ricercare gli uomini Giusti del nostro tempo nelle situazioni di crisi. L’empatia, ad esempio, verso una donna iraniana o afghana che lotta per la sua emancipazione dal potere religioso attiva il desiderio di conoscenza della nostra mente per una realtà lontano dalla nostra.

In secondo luogo, il compito dei Giardini è quello di accendere, come scriveva Vassilji Grossman, «l’umano nell’uomo» proponendo ai cittadini di farsi argine morale e individuale di fronte a possibili nuovi soprusi. Questi nuovi luoghi di educazione alla responsabilità legano la conoscenza alla virtù come nel celebre passo della Divina Commedia, «Considerate la vostra semenza: Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguire virtù e conoscenza».

La conoscenza vera è infatti quella che ci trasforma e determina il nostro agire.  Una conoscenza senza impegno e attività non è vera conoscenza.

Ettore Majorana, come ricorda Vito Mancuso, era un fisico teorico di grande spessore, proprio come lo era il grande filosofo Martin Heidegger. Ma tutti e due, nonostante le loro straordinarie conoscenze, sono diventati ammiratori e sostenitori del nazismo: due grandi fallimenti sul piano etico. Paradossalmente, come scrisse Vassilji Grossman, capita che un uomo umile, meno attrezzato intellettualmente, si faccia trascinare da un impeto di bontà insensata di fronte a un sopruso.  Egli non è solo un attore di giustizia in questo mondo, ma dimostra di sapere praticare fino in fondo la conoscenza di cui è portatore, a differenza di certi intellettuali narcisisti e indifferenti che avrebbe gli strumenti per agire ma pensano solo al proprio ego, come osservava a Praga negli anni Trenta, Milena Jesenská, una donna straordinaria amata da Kafka, che fu tra le prime a rendersi conto della deriva nazista e della rassegnazione della società.

Come si attiva il meccanismo sopito della coscienza? Come si educa alla virtù?

Sta qui l’originalità dei Giardini dei Giusti che attivano la società a ricercare e a esprimere riconoscenza verso gli uomini Giusti del passato e del nostro tempo.

La divulgazione delle storie umane di resistenza e responsabilità ha un effetto terapeutico perché mostra che il male non è determinato a priori e che ogni essere umano ha ovunque la possibilità di scegliere.

Estienne de La Boétie, amico intimo di Montaigne, scriveva nella Servitù volontaria che qualsiasi dittatore vive con il consenso di chi gli dice sì, ma se improvvisamente qualcuno comincia a prenderne le distanze e altri lo seguono l’autocrate a poco a poco diventa nudo e perde arroganza e potere. È questa la più grande speranza in ogni epoca buia, perché così diventa evidente che ognuno ha il potere, se lo vuole ed è determinato a farlo, di spingere la storia in una buona direzione.

C’è poi una metodologia importante nella comunicazione pubblica delle storie dei Giusti. Si umanizzano le loro storie, mostrando senza reticenza i limiti personali di ogni persona giusta. Spiegando che non sono né santi né eroi, ma essere umani come tutti noi, si sottolinea che il Bene possibile è alla portata di tutti. Al contrario, se si idealizzano i Giusti, come spesso accade nelle narrazioni pubbliche, si creano miti non veritieri e irraggiungibili.

È un errore grave creare una divaricazione netta tra Giusti e mondo reale, allo stesso modo, come osservava Primo Levi, era totalmente sbagliato presentare i carnefici nei campi di sterminio, come fossero soltanto dei mostri e non delle persone comuni che avevano fatto delle scelte. Per Levi ogni uomo per sua natura poteva essere tanto un Giusto, quanto un aguzzino. Se non si coglie questo aspetto, sfugge la comprensione della banalità del bene come del male.

È inoltre importante il metodo della ricerca pubblica.

La valorizzazione delle storie dei Giusti non è un’imposizione dall’alto programmata a tavolino, ma nasce da un percorso democratico dove la società viene stimolata a farsi ricercatrice e pescatrice di perle nascoste del bene, come aveva intuito Walter Benjamin. Si educa così l’opinione pubblica a ricercare e ad apprezzare storie di bene. Quando si ricerca e si apprezza il bene si compie indirettamente un percorso di autoeducazione spirituale.

Moshe Bejski, l’artefice del Giardino dei Giusti di Gerusalemme mi raccontava che ogni volta che scopriva una nuova storia di salvataggio provava il piacere e la gioia di appartenere al genere umano, nonostante avesse visto ad Auschwitz l’abisso dell’inumanità. In lui si rafforzava la componente etica, come quando Marco Aurelio raccontava, nei suoi Ricordi, il gusto di esercitare ogni mattina il mestiere di uomo.

Il meccanismo della ricerca delle figure morali di ogni tempo che unisce studenti, educatori, insegnanti, amministratori ha poi un momento finale rappresentato dallo stimolo valoriale nei confronti dell’opinione pubblica.

Quando si piantano gli alberi e si fanno conoscere di volta in volta i Giusti prescelti, e le nuove storie scoperte, si spinge la società a esercitare un sentimento di gratitudine verso chi ha difeso l’umanità. Così si trasmette al pubblico, presente alla cerimonia nel Giardino, il sentimento che ognuno ha ricevuto un dono inestimabile da parte di chi ha saputo preservare la dignità umana. Cogliere la ricchezza di questo dono che ha permesso a tutti di vivere in un mondo migliore può innestare un meccanismo di reciprocità.

Poiché abbiamo ricevuto dagli altri delle precedenti generazioni, a nostra volta siamo stimolati a farci carico della nostra responsabilità verso quelle future in una staffetta morale ininterrotta. Come in una gara podistica ci viene passato un testimone che a nostra volta, se ci assumeremo una responsabilità, potremmo consegnare a chi ci seguirà nell’esercizio della nostra virtù.

Il Giardino dei Giusti si rivolge alla società attraverso un meccanismo di comunicazione indiretta, come osservava lo studioso della filosofia classica Pierre Hadot, che ragionava sulle modalità di una educazione persuasiva. Non si impone a nessuno una morale o una direttiva di comportamento ma, con il racconto delle storie, si stimola la gente a pensare da sola e a immedesimarsi empaticamente in chi ha agito come persona degna in varie circostanze difficili.

Al richiamo del bene non si ubbidisce come a un ordine militare, ma ci si può soltanto arrivare attraverso un percorso solitario di purificazione morale. Ognuno di noi agisce sempre quando è convinto, non perché qualcuno glielo impone, anche se per una causa giusta.

La persuasione indiretta che attiva la libertà della scelta individuale è il presupposto di una comunicazione non totalitaria. E proprio questa modalità originale dimostra un possibile antidoto nei confronti di pratiche politiche in uso nei sistemi autocratici dove il cittadino viene abituato alla sottomissione e a un agire senza consapevolezza. Quando un cittadino si abitua a pensare da solo, con la sua coscienza e la sua capacità di giudizio, non diventa uno essere obbediente che può venire facilmente manipolato.

Con questa logica sosteniamo che la Giornata dei Giusti dell’Umanità, a differenze di altre ricorrenze, non è mai una celebrazione imposta, ma sempre una scelta di chi la vuole ricordare.

I Giardini dei Giusti hanno forza solo se vivono di autenticità e partecipazione. Se si trasformassero in un rito ripetitivo e imposto soltanto dalla legge perderebbero immediatamente la loro funzione educativa.

Il Giardino attraverso le sue pratiche trasmette l’idea che fare il bene nei confronti degli altri non è una privazione e una rinuncia, ma la realizzazione della pienezza umana. Spesso le storie dei Giusti sono percepite come vicende elitarie di chi ha deciso di sacrificarsi per l’altro. È una visione distorta che confonde le vittime con i Giusti e fa ritenere che la sofferenza sia il percorso obbligato dei Giusti. Non è così. Le persone che si prodigano per aiutare l’umanità lo fanno prima di tutto perché hanno compreso che fare il bene è la chiave per stare meglio con sé stessi e trovare una forma di felicità. Diventare nel proprio ambito costruttori di giustizia significa sentirsi persone realizzate. Il segreto dei Giusti è proprio questo.

Nel racconto delle storie dei Giusti è importante concentrarsi sulle caratteristiche che spingono gli uomini a intraprendere azioni di coraggio e persino a rischiare la vita. «Non potevo farne a meno» spiegò Giorgio Perlasca, quando chiesero la ragione del suo impegno a Budapest per salvare gli ebrei nell’ambasciata spagnola fingendosi console. Era la stessa motivazione di Dimitar Peshev in Bulgaria che convinse i deputati filo fascisti del suo paese a bloccare la deportazione in atto con una lettera morale dove sosteneva che rimanere indifferenti avrebbe avuto un costo pesante per la propria condizione personale e la reputazione del proprio paese.

L’indagine sulle motivazioni nascoste che spingono gli uomini a praticare il bene verso gli altri è la chiave per creare nella società un percorso di emulazione. Scoprire la loro gioia e la loro felicità interiore è altrettanto importante che la narrazione delle loro gesta.

Questa metodologia della scoperta del bene dentro di sé esercitando il bene verso gli altri non è soltanto importante per la propria crescita morale, ma può diventare uno strumento per educare gli altri, e soprattutto coloro che intraprendono una strada sbagliata.

Il bene ha due facce come aveva compreso Baruch Spinoza. È l’esercizio della propria virtù, ma anche il compito di diventare un educatore nei confronti di chi sbaglia e sta prendendo una strada pericolosa nei confronti degli altri esseri umani. Così si rende sempre il mondo migliora in due modi. Agendo in prima persona, ma poi correggendo gli altri.

Se diventiamo consapevoli che il male fatto agli altri è un male fatto a noi stessi, abbiamo la possibilità di mostrare a chi sbaglia che agendo in un certo modo va in contraddizione con sé stesso e quindi non gli è conveniente diventare un persecutore che esercita violenza verso gli altri esseri umani.

Socrate ha perfettamente messo a fuoco il problema quando ha affermato che è meglio subire un torto, piuttosto che compierlo. Alla fine, chi umilia l’altro, lo ferisce, usa violenza, diventa un persecutore, una rotella di un sistema oppressivo, un delatore, fino a essere un carnefice non può essere una persona felice. Il dominio sull’altro e l’esercizio della violenza arreca danno alla propria personalità e fa vivere un’esistenza distorta. Etty Hillesum nel campo di concentramento con straordinaria sensibilità provava pena per l’infelicità del suo carceriere.

Così attraverso le pratiche dei Giardini si può insegnare ai giovani a correggere i comportamenti dei loro compagni che hanno atteggiamenti bullisti verso i più deboli, manifestano il disprezzo verso i diversi, si lasciano andare al razzismo, fino a usare la violenza verso gli altri. Sono questi i primi segni del male nella quotidianità che possono sfociare in eventi più gravi. Con la persuasione e la convinzione si ha la possibilità di fermare, nella sua genesi, un meccanismo che potrebbe portare in determinate circostanze al male estremo.

Ma come si insegna alle persone a superare la paura e a non farle sentire sole in un impegno personale di fronte alle ingiustizie?

Tutti noi sentiamo il peso della nostra fragilità e inadeguatezza. Pensiamo il più delle volte che un nostro gesto possa essere inutile, inefficace e non seguito da nessuno. È questo il vero miracolo dei Giardini dei Giusti. Essi mostrano con gli alberi dedicati alle persone buone di ogni tempo che esiste, come scriveva Giacomo Leopardi, ne La ginestra, «una social catena di fratellanza e solidarietà, di cui ognuno può essere parte».

La fragilità dell’individuo si supera nella partecipazione a una rete che crea, come osservava Vaclav Havel, il fondatore di Charta 77, il potere dei senza potere che insieme possono scuotere il mondo.

La costruzione dei Giardini dei Giusti rende visibile a tutti la grande catena del bene e ci mette in relazione con le donne e gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo che, con modalità diverse, ci hanno mostrato la bellezza della persona buona.

I Giardini dei Giusti sono anche una terapia contro la nostra solitudine.

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